L'Editoriale
Lunedì 20 Gennaio 2020
Pd, partito nuovo
Uscire dal vago
Al conclave di Contigliano non c’è stata nessuna fumata bianca, nessun nuovo papa. In effetti non era un conclave. Era solo un ritiro spirituale convocato per ricaricare gli animi in vista della battaglia campale che aspetta il Pd in Emilia Romagna il 26 gennaio. Il capo del partito non era, e non è (per il momento) in discussione. In compenso, c’è stato l’annuncio di un nuovo partito, pardon: di un partito nuovo, come s’è premurato di precisare Zingaretti. Nel tentativo di chiarire meglio la lieta novella, il segretario del Pd non è però riuscito a uscire dal vago: «Vogliamo costruire, non sciogliere. Combattere, non arretrare. Aprire, non chiudere».
Affermazioni sibilline. Bravo chi capisce quali saranno fisionomia organizzativa e profilo politico del «partito nuovo». Del resto, era difficile per lui andare oltre una generica disponibilità ad aprire un nuovo cantiere della sinistra. Da questo momento, infatti, comincia il difficile. Il Pd era nato con una precisa vocazione maggioritaria, scommettere sulla democrazia dell’alternanza che prevedeva solo due protagonisti: la destra e la sinistra. Altri tempi! La sentenza di giovedì scorso della Corte Costituzionale ha posto una pietra tombale sul maggioritario. Si torna al vecchio, caro proporzionale, quel proporzionale che avevamo rigettato rabbiosamente nei primi anni Novanta come fosse l’origine di tutti i mali di un’Italia finita ostaggio di una partitocrazia famelica di poltrone e di tangenti. Il cambio delle regole pone ora seri problemi a tutti, e più di tutti al Pd.
Reduce da ben tre scissioni (LeU di Bersani, Italia viva di Renzi, Azione di Calenda), con una forza elettorale fortemente ridimensionata rispetto ai tempi migliori, privo ormai di quel prezioso interlocutore politico - il cattolicesimo democratico dei Moro e dei Prodi - tanto corteggiato per formare una coalizione che portasse finalmente la sinistra al governo, come può oggi il Pd, nelle condizioni in cui si trova, costruire un campo talmente largo da renderlo vincente? L’unico suo punto fermo è l’inimicizia con Salvini. Questo gli garantisce il presidio sicuro del campo. Ma niente più di questo. Il grosso del lavoro resta ancora da fare: allestire l’armata da guidare alla battaglia ed elaborare un piano d’attacco. Le forze da mobilitare sulla carta sono tre: LeU, Cinque Stelle, Sardine. Con i primi non ci sono particolari difficoltà. Sono già pronti essi stessi a fare il ritorno alla casa madre. Il boccone più grosso sono i grillini, ma è difficile da trangugiare. Lo si è visto in questi primi mesi di collaborazione governativa. Poche sintonie, tante frizioni, maldestre operazioni di avvicinamento. In Umbria hanno voluto affrettare i tempi dell’«alleanza organica» e hanno registrato un flop, peraltro scontato.
Adesso in Emilia Romagna, dove la vittoria sarebbe stata a portata di mano solo che Pd e M5S si fossero stretti in un’alleanza elettorale, si presentano invece divisi. Ci sono infine le Sardine, quanto meno, da agganciare. Sono una ricca, preziosa riserva di energie fresche, ma non sembrano intenzionate a fare la truppa di riserva agli ordini dello stato maggiore dem. Il proporzionale aiuta comunque il progetto coltivato dai giallo-rossi. Permette loro di procedere divisi per poi, a camere elette, puntare al governo uniti. Sì, ma per fare cosa? L’inimicizia con la destra di Salvini, unita alla rivalità con il centro di Renzi e Calenda lascia loro un solo spazio libero, la sinistra, col pericolo però di fare la fine di Corbyn.
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