Pd alla casella
di partenza

Gli assetti di partito sono l’ultima preoccupazione di un’Italia prostrata dalla pandemia e con la povertà alle stelle. Ma tant’è. La crisi del Pd, nell’approfondire la distanza fra Paese reale e ceto politico perché spaiata rispetto alle paure e alle speranze dei cittadini, conferma tuttavia che l’impatto del governo Draghi è destinato a trasformare i rapporti di forza tra i partiti e il sistema dentro cui agiscono. Gli esecutivi tecnici, al di là della formale neutralità di chi li guida, intervengono con effetti chirurgici sul corpo già malato dei partiti: formule che iniziano in determinate condizioni politiche e che terminano in un quadro differente, con esiti che non si possono precostituire. Non aver ponderato le conseguenze di un cambio di fase così profondo sembra essere uno dei limiti di Zingaretti che, nel gettare la spugna, ha dato l’idea di non reggere e di non essere in grado di esercitare una leadership adeguata a questo preciso momento.

Il segretario dimissionario del Pd ha spiazzato tutti cercando di uscire, a sua volta, dallo spiazzamento in cui i dem si sono cacciati con la nascita del governo di unità nazionale. E lo ha fatto con parole forti, equivalenti a un vaffa nei confronti del suo partito di cui è stato il responsabile per due anni. Una resa, la sua, ancor prima di essere una resa dei conti. Si può capire che pure un tranquillo mediano qual è Zingaretti possa aver perso la pazienza dinanzi al correntismo e alla filiera dei personalismi del Pd, ma le correnti sono sempre esistite e anche lo stesso ex leader, se ex sarà, ne è stato l’espressione. Qualcuno dovrà pur motivare agli amministratori locali, ai sindaci, ai volontari del partito il perché debbano vergognarsi, per usare l’accusa di Zingaretti, del lavoro che fanno. La mozione degli affetti e la solidarietà umana non possono però oscurare la necessità di un’autocritica del segretario dimissionario, del suo consigliere Bettini e di tutta la classe dirigente dem. Si può chiamare maledizione o male oscuro, che tanto oscuro non è, la patologia dei democratici: resta il fatto che il Pd, al pari dei francesi che amano ghigliottinare i loro sovrani, non sopportano la leadership che loro stessi creano con le primarie.

Un sistema di democrazia diretta, di popolo si potrebbe dire, innestato su un format leaderistico che dà un ampio mandato al vincitore senza uguali nelle altre formazioni, ma che poi al dunque si rivela un’illusione o uno strumento inservibile. In questo il Pd, partito-sistema, è anche il partito-nazione: in modo parallelo ad una quota maggioritaria di italiani, ha in sé una innata ostilità verso la propria classe dirigente. Dei 6 predecessori di Zingaretti nei 14 anni di vita del Pd, solo uno (Franceschini) fa ancora parte del partito. Gli altri se ne sono andati per fondare nuovi partiti (Bersani, Epifani, Renzi), verificando che per i progressisti non c’è vita fuori dal Pd, oppure fanno un altro mestiere (Veltroni il giornalista e lo scrittore, Martina vice direttore della Fao). Aggiungiamoci anche l’abbandono dell’ex ministro dell’Interno, Minniti. La parabola dei leader è finita all’incirca sempre allo stesso modo: dimissioni, veleni, recriminazioni, vendette. Fuoco amico, nemico interno, bombardamento del quartier generale. Tutti abbattuti come birilli, mettendoci anche del loro. I segretari raramente hanno avuto il pieno controllo e sostegno del partito. Anche Renzi, la personalità più debordante, nel suo spettacolare saliscendi di consensi è stato l’emblema del carattere effimero delle leadership Pd.

Un partito che le ha provate tutte sotto l’ombrello del partito-tenda che tutto accoglie, ritrovandosi oggi a centro classifica, diciamo così, e solo la quarta forza parlamentare della nuova maggioranza: liberal e all’americana con Veltroni, laburista in stile ditta emiliana alla maniera di Bersani, post ideologico con Renzi. Da quando è stato eletto Zingaretti, si sono avvicendate diverse stagioni politiche consumate dal Pd nel perimetro obbligato della responsabilità nazionale: senza investimento sulla propria cultura plurale, definendo la propria identità sulla base dell’alleanza con i grillini prima ancora di aver elaborato il proprio profilo. Il «governo di tutti» ha colto alla sprovvista Zingaretti che, dopo aver subito il Conte 2 (voleva andare al voto anticipato) e dopo essersi incartato sul «Conte o morte», fino all’ultimo s’era ingegnato per rimettere in piedi la maggioranza giallorossa. L’arrivo di Draghi, salutato senza particolari entusiasmi, s’è tramutato in un oggettivo indebolimento del Pd, in ritardo sull’accelerazione impressa all’evoluzione del sistema. L’effetto ottico, giusto o sbagliato che sia, dice che il partito più lontano da Draghi (Lega di Salvini) è oggi quello che si muove con più disinvoltura occupando tutti gli spazi di manovra possibili, mentre quello che dovrebbe essere il più contiguo al premier (Pd) non si trova a suo agio, non è scattata la scintilla, tant’è che deve ripetersi e ripetere che le cose non stanno così. Nel mentre l’ipotetico federatore del campo progressista (Conte) s’è tramutato in un competitore che, alla guida dei Cinquestelle, potrebbe essere, stando ai sondaggi, in fase di sorpasso sugli alleati. Il Pd con la febbre è chiamato a reinventarsi e in sostanza si tratta sempre di un ritorno alla casella di partenza per correggere la formula chimica indicata da D’Alema, quella di un amalgama mal riuscito. Lo specchio, a suo modo, di un Paese anomalo che in 10 anni ha avuto 4 premier non parlamentari e dal 2018 tre maggioranze completamente diverse l’una dall’altra. Qualcosa che sfugge all’umana comprensione.

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