Patto e sfida
per il Paese

La proposta slogan – Patto per l’Italia - che ha caratterizzato ieri l’Assemblea annuale di Confindustria in versione autunnale causa Covid, appare forse un po’ troppo generica e soft, per un turbo presidente come Carlo Bonomi, salito alla ribalta nazionale segnalandosi per grinta e vis polemica verso la politica. Dopo anni di presidenze al fotofinish, si è insediato in Viale dell’Astronomia pressoché all’unanimità, quindi con un forte mandato e propositi combattivi. Il fatto è che l’ascesa di Bonomi è stata parallela al Governo Conte 1 ed è stato gioco facile, in quella fase, bombardare in chiave di mercato scelte assistenziali, populismo, cancellazione disinvolta di provvedimenti come industria 4.0, guerra all’Europa.
Il quadro è poi profondamente cambiato con la pandemia, che ha obbligato a smorzare i toni, e soprattutto con il Conte 2, che recuperando l’europeismo, ha portato a casa centinaia di miliardi, e ha messo in ombra la politica strumentale e urlata di una sterile campagna elettorale permanente.

Nella platea dell’Auditorium romano, sedeva martedì 29 settembre – in grisaglia e auto blu in attesa, benedicente e lungimirante - lo stesso Di Maio che solo pochi mesi fa definiva «prenditori» gli imprenditori, e andava a Parigi ad incoraggiare i gilet gialli.

Da qui, un Bonomi istituzionale, che per fare l’elogio degli atteggiamenti «controvento» che gli piacciono ha portato proposte condensate in un tomo di 385 pagine e sfidando il Governo a tirar fuori dal cassetto le conclusioni della passerella altrimenti inutile degli «Stati generali» improvvisati da Conte.

Tutta la relazione è stata un costante appello ad «avere una visione» con l’implicita denuncia di mancanza di quella altrui. Da qui la stoccata sul «Sussidistan», ovvero sull’Italia terra permanente dei sussidi e delle temibili dispersioni senza costrutto dei fondi miliardari di provenienza europea.

E anche l’accenno ad equiparare autonomi e dipendenti nell’autodichiarazione mensile dei rispettivi redditi è il segno di una volontà quasi rivoluzionaria, perché sollevare le imprese di compiti sussidiari rispetto al fisco è tema che mai nessuno aveva avuto il coraggio di evocare.

Sottolineato con orgoglio che nell’ultima crescita prima del tonfo Covid il ruolo decisivo lo hanno svolto le imprese private, con imbarazzanti confronti con il piatto andamento di quelle pubbliche, Bonomi non ha taciuto sui limiti ben noti del sistema Italia, denunciando la «proliferazione della normativa», la pesantezza delle procedure, la dilatazione temporale infinita della giustizia e la caduta verticale del Paese nelle classifiche internazionali.

Insomma, si vedeva con chiarezza che teneva il freno a mano tirato, ma sotto sotto la Confindustria di Bonomi non vuol essere complice di altri consociativismi. Vedremo. Per il momento, il leader di Viale dell’Astronomia si presenta come un pezzo di classe dirigente che non si tira indietro e di questo c’è obiettivo bisogno. Forse qualche parola in più sarebbe stata utile su vicende a dir poco sconcertanti come Alitalia e Ilva, mai risolte, o come la sofferenza del caso Atlantia, con il privato sotto attacco politico.

Quanto al sindacato, mano tesa sul salario minimo. Confindustria è contraria quanto i lavoratori, ma la questione – con una sua indole populistica – resta scivolosa. Sui rapporti contrattuali, del resto, non poteva dire di più, avendo in casa grossi contrasti sul ruolo della retribuzione nei contratti nazionali e di categoria. La ribellione di big come Lavazza e Barilla ha spaccato il settore alimentare e la mediazione presidenziale per ora è fallita.

Dal canto suo, Conte si è presentato agli industriali con in mano il ramoscello d’ulivo della fine degli sprechi-simbolo del precedente (suo) Governo, e ha cercato di rimediare allo scialbo intervento del ministro dell’Industria con qualche lampo e qualche promessa, ma ha accusato il colpo quando Bonomi gli ha fatto presente che se fallisce il Recovery Fund, non va a casa solo lui, ma tutto il Paese. Una zampata, tanto per ricordare il ruolo critico della sua presidenza.

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