L'Editoriale
Venerdì 29 Gennaio 2021
Partiti deboli
Cambi di casacca
Svolgere consultazioni per risolvere una crisi di governo è un compito nel quale si dispiega con la massima estensione il ruolo del presidente della Repubblica nell’esercizio delle prerogative a lui assegnate dalla Costituzione. Può sembrare paradossale che, in merito, essa non dica nulla; in realtà la scelta dei Padri costituenti fu segno di estrema saggezza. Per coglierne appieno la sostanza si devono valutare congiuntamente tre piani: le regole, il contesto politico, la prassi. L’articolo 92 della Costituzione dispone che il capo dello Stato «nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri». Nessuna parola sulla fase che conduce all’esito che permetterà o alla formazione di un governo oppure allo scioglimento delle Camere. Il silenzio della Carta costituzionale è dovuto alla volontà di non ingabbiare in prescrizioni minute un iter che può diventare estremamente delicato e nel quale hanno valore primario apprezzamenti e soluzioni non elencabili a priori. In altri ambiti la Costituzione fissa con precisione i limiti delle funzioni presidenziali in un sistema di democrazia parlamentare.
Si pensi al divieto di scioglimento delle Camere nei sei mesi ultimi del mandato presidenziale, onde evitare che il capo dello Stato potesse esercitare quella prerogativa per azzerare maggioranze politiche che ritenesse sgradite o a lui contrarie. In assenza di regole scritte spettò ai primi presidenti della Repubblica costruire una prassi consolidatasi progressivamente nel tempo. Enrico De Nicola per primo si assunse il compito di definire criteri utili per i suoi successori. Ciò non toglie che ciascun capo dello Stato abbia operato con modalità diverse anche nel corso del proprio mandato. E qui entra in gioco l’importanza del contesto politico. Nei primi decenni repubblicani - dato il peso elettorale della Democrazia Cristiana - il capo dello Stato nominava il candidato indicato da quel partito. Tuttavia non mancarono eccezioni: nel 1953 Luigi Einaudi - dopo la rinuncia di Alcide De Gasperi - nominò presidente del Consiglio Giuseppe Pella senza svolgere ulteriori consultazioni. Ciò a conferma che il presidente della Repubblica non ha un ruolo puramente notarile, ma può operare scelte basate su sue personali valutazioni, le quali potranno essere approvate o respinte dal Parlamento.
Nella situazione presente il presidente Mattarella ha l’onere di individuare soluzioni atte a risolvere una situazione niente affatto facile. Egli ha chiesto tempi brevi. E li ha ottenuti: Conte, non potendo contare su una maggioranza solida, si è dimesso. I partiti che lo hanno sin qui sostenuto hanno riproposto il suo nome e ad esso il capo dello Stato potrebbe attenersi, a condizione che il premier incaricato goda in Parlamento di una maggioranza tale da permettere una stabile azione di governo. in merito si è acceso un rovente dibattito sui cosiddetti «responsabili» che appoggerebbero il nuovo governo. Scelta deprecata dall’opposizione e dipinta come una grave anomalia. In realtà, i governi parlamentari - nell’arco della storia unitaria - hanno fatto ricorso spesso a spostamenti della maggioranza parlamentare. Basti pensare alla caduta della Destra storica nel 1876. Il «trasformismo» è un fattore intrinseco ai sistemi elettorali proporzionali. Inoltre è bene non dimenticare che, nel nostro ordinamento, per i parlamentari vige il divieto di mandato imperativo ed essi possono sempre scegliere cosa e per chi votare. Non si può, d’altro canto negare, che i «passaggi di casacca» siano diventati più frequenti che nel passato; di fatto, tale malcostume dipende dalla crisi strutturale dei partiti, quasi tutti privi di collante ideale. La scarsa caratura etica di taluni parlamentari è frutto di una selezione inadeguata, per non dire «a rovescio»: fuori i migliori, dentro i peggiori. Ma il problema non può risolverlo il capo dello Stato; dovrebbero risolverlo gli elettori, mandando in Parlamento persone qualificate.
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