L'Editoriale
Lunedì 15 Luglio 2019
Paperoni a Milano
Italia disuguale
Lo sapevate che metà dei Paperoni d’Italia vive a Milano? Il dato arriva dall’Inps, grazie alla sua banca dati, che è diventata il più dettagliato termometro della società italiana dopo l’Istat e il Censis. L’istituto guidato da Pasquale Tridico, il padre del reddito di cittadinanza, non si occupa infatti solo di pensioni, ma sempre di più di tutto ciò che riguarda il nostro Paese e in particolare il mercato del lavoro. Dalla banca dati Inps è partito il rapporto di quest’anno che è una fotografia dell’ex Belpaese.
Nella classifica dei super ricchi (quelli che guadagnano oltre mezzo milione di euro l’anno) la Capitale segue, ma lontana. Roma mostra percentuali che non raggiungono nemmeno un terzo di quelle milanesi. Non è difficile spiegare perché Milano sia sempre di più la capitale dei ricchi. Non c’è solo la grande tradizione risalente al Rinascimento che fa di «Milan un grand Milan», la città da cui parte la gran parte delle iniziative politiche ed economiche del nostro Paese (nel bene e nel male).
Vi sono altre considerazioni da fare. È molto più facile fare affari e incrementare il proprio reddito nell’unica metropoli saldamente europea esistente in Italia, dove le comunicazioni, i servizi, le strutture logistiche, economiche e finanziarie sono al top e dove lo «spirito d’impresa» predomina sulla mentalità levantina della Capitale.
Tutto questo produce ricchezza. Una ricchezza che però non si diffonde a pioggia su tutti gli abitanti di una grande area bensì su una ristretta cerchia di redditi milionari.
Impressionanti anche i divari di genere che emergono dal rapporto Inps: tra i più ricchi solo il 7,5 per cento è donna. Raggiungere alti livelli di reddito è poi diventato sempre più difficile: solo i ricchi diventano sempre più ricchi. Molto interessante l’excursus storico che fa l’Inps. In generale, guardando al periodo che va dal 1974 al 2017, si evidenzia come alla «forte diminuzione delle disuguaglianze negli anni Settanta» abbia fatto seguito «un rilevante aumento delle diseguaglianze fino a inizio anni Novanta», con una «sostanziale stabilità negli ultimi due decenni». Da allora si assiste a una stagnazione dei salari.
L’ennesima dimostrazione che la fine del collettivismo e del comunismo, con la caduta del muro nell’89, anziché favorire l’economia e dunque una ricchezza diffusa in tutto il mondo, ha favorito una radicalizzazione delle ricchezze: i super-ricchi sempre più ricchi da una parte e i poveri sempre più poveri dall’altra.
In mezzo, un ceto medio sempre più precarizzato e proletarizzato. L’Italia non fa eccezione. Come già aveva intuito qualche anno fa Giuseppe De Rita il ceto medio ha peggiorato la propria condizione: si è precarizzato e ha introiettato insicurezze che prima non aveva. Ora con la crisi rischia addirittura di polarizzarsi sul sottoproletariato (un sottoproletariato senza più prole però, perché ormai si fanno sempre meno figli, ricchi o poveri non fa differenza).
Senza contare che questa situazione registra ancora una volta la mancanza di una borghesia; quella che, sempre secondo De Rita, si discosta dagli arricchiti e dal ceto medio perché «fa gli interessi del Paese facendo i propri interessi», come ha sempre detto il fondatore del Censis.
Tra i giovani si fa fatica a scorgere dei nuovi Mr. Scrooge. E di certo il part time, soprattutto se imposto, non aiuta. Il Rapporto mette in evidenza infatti come attualmente questa tipologia di orario coinvolga circa il 20 per cento degli occupati contro il 15 per cento del 2008. Questa è una tendenza che si fa largo nelle imprese. Una tendenza molto pericolosa cui il legislatore dovrebbe porre rimedio. Se infatti il numero delle persone che hanno un posto ha riagganciato i livelli raggiunti prima che si innescassero le varie recessioni, l’intensità del lavoro, misurata dal numero di ore passate in fabbrica, nei cantieri o in ufficio, resta del 4,3 per cento inferiore. È il miglior modo per diventare «working poors», avere un posto di lavoro ma non riuscire a raggiungere quella dignità che ogni lavoro dovrebbe dare, anche se con differenti livelli. Un altro segno dei tempi.
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