Pandemia, la dura
legge della realtà

Chiudiamo l’anno con quell’alieno che credevamo debellato nell’era dell’algoritmo: il Covid, nella sua versione Omicron che, come da alfabeto greco, rinvia all’età classica, che pure nei secoli ci ha insegnato qualcosa. Nei giorni in cui si dovrebbe salutare in senso liberatorio un anno tormentato, ma che aveva raggiunto l’ultimo miglio, il limite oltre il quale ci sarebbe stata la salvezza ritrovata, la realtà impone la sua legge più ferrea: quella dei fatti e, insieme, la corretta gestione delle circostanze indesiderate. La pandemia non è all’angolo, anzi infuria più che mai.

Da noi e ovunque in Europa. L’Italia è forse meno esposta o più protetta dall’esperienza dei tragici impatti ricevuti, ma l’allerta resta intatta: le ragioni della sicurezza individuale e collettiva, e possibilmente dello scampato pericolo, possono alleviare gli attimi naturali di una felicità contratta nel passaggio obbligato delle festività. Un Capodanno con la mascherina e «distanziati», termine che ormai appartiene al vivere quotidiano, la difesa da un effetto traumatico diffuso. Un neologismo, «tamponati», ci accompagna in questa transizione senza fine, trasformando una parola in negativo in un’anticamera della salvezza: un mondo rovesciato a fin di bene. Abbiamo vissuto il secondo Natale in emergenza e l’ultimo della normalità, quello del 2019, ci sembra rivestito di una nostalgia d’altri tempi: rivisto oggi appare come l’ultimo della Belle Époque prima del fragore delle armi. Omicron, più di Delta, ci conferma che restiamo nel perimetro dell’apparizione del «cigno nero», l’evento raro e inaspettato, quel traumatico punto di cesura fra ciò che è stato e ciò che sarà. La variabile impazzita, decisamente spiazzante che ha interrotto la fuoriuscita dallo choc sanitario, nulla toglie tuttavia a ciò che di buono è stato realizzato, a uno scenario evolutivo favorevole fino a ieri. Il 2021 nel complesso è stato l’anno della Grande Sintesi: la campagna vaccinale a pieno ritmo, il governo delle organizzazioni complesse, le basi della ripresa economica. Si poteva fare meglio? Sì, come sempre. Con il senno di poi siamo tutti promossi professori e anche modesti signor nessuno possono essere scambiati per noti virologi. Non è il tempo del filosofeggiare e spiace ricordarlo a qualche illustre pensatore. In realtà si sono affermati il principio della competenza, dell’autorevolezza empirica della scienza e della forza della razionalità: la realtà s’è imposta sull’irrazionalità, sulla fuga dal reale. Un lavoro inaudito, nel senso proprio del termine, e prima di giudicare bisognerebbe essere consapevoli della straordinaria responsabilità caduta sulle spalle di chi, dal basso all’alto, deve decidere sul nostro presente e futuro. Abbiamo imparato che la sicurezza è un bene collettivo, il collante di una società, un patrimonio sottratto alle logiche di parte. Sicurezza e libertà, sicurezza e lavoro: nei limiti del possibile si è cercato il punto d’equilibrio, ben sapendo che siamo tutti sulla stessa barca e che la lotta al Covid è un divenire quotidiano, che si estende a tutti gli ambiti dell’esistenza. Siamo sempre all’inizio di un’ennesima emergenza, l’habitat pluridecennale della storia italiana. A ben vedere se la gran parte degli italiani sta dalla parte giusta del contrasto all’epidemia, cominciamo a misurare – al di là di qualche voce stonata – un cambiamento strutturale dal quale è difficile tornare indietro, e questo vale anche per una maggiore sensibilità nei confronti della sofferenza e della solidarietà. Fa piacere che l’Italia goda di stima internazionale e che venga portata ad esempio nella lotta alla pandemia. Molto lo si deve all’autorevolezza di Mattarella e Draghi, ma al fondo è pure il tratto di un Paese che, quando smette di farsi del male, può contare sulla riserva repubblicana dei costruttori e sulla necessità di ritrovare le ragioni della fratellanza comunitaria. Siamo sì disinvolti nel ballare sulla tolda del Titanic, capaci però di fermarci al limite estremo. Una democrazia difficile quella italiana, eppure la nostra forza sta nel «sottostante»: la società civile, con i suoi corpi intermedi, con l’associazionismo, con le istituzioni territoriali. L’universo della sanità al quale va rinnovato un grazie sentito e riconoscente. Lo possiamo dire, con l’evidenza dei fatti, dall’avamposto di Bergamo, con il suo carico di dolore che l’affligge dall’ondata iniziale. Se prima la nostra terra era il paradigma infausto di quei mesi terribili, oggi ha trovato nella resilienza il riscatto dalla sofferenza. Un percorso del buon senso, che va nella direzione attesa. La resilienza come continuità di un vivere insieme, di una laboriosità scritta nei caratteri fondativi, che sa rispondere all’appello e che trova nella sua memoria storica la bussola che orienta nell’epoca dell’inquietudine. Se c’è un patriottismo da rispolverare, questa potrebbe essere una formula inclusiva da prendere in considerazione: molto bergamasca, se vogliamo, ma proprio per questo molto italiana.

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