Offensiva cinese
e la tenuta dell’Ue

A Londra si sono festeggiati i 70 anni dell’Alleanza atlantica. La Nato per la prima volta vede nel crescente influsso e nella politica internazionale della Cina una sfida che va affrontata. Il presidente americano Donald Trump torna a far pressioni perché gli alleati non utilizzino tecnologie Huawei per lo sviluppo del 5G. Per gli europei è imbarazzante. Sia Germania che Italia infatti non escludono l’utilizzo dei sistemi cinesi nella comunicazione ultraveloce. Il governo italiano con la firma del memorandum of understanding per la Via della seta ha rotto una condotta comune dei Paesi del G7. La cautela verso il gigante asiatico è venuta meno e si è creato un precedente nell’Unione Europea perché l’Italia è Paese fondatore. Berlino per la sua parte permette la partecipazione di Huawei alle gare di appalto per l’assegnazione dei lavori della rete ultraveloce 5G.

I fatti di Hong Kong si sono messi però di traverso e hanno dato alla Cina un’esposizione mediatica non gradita. La videoconferenza del leader dei ribelli di Hong Kong Joshua Wong, promossa da parlamentari italiani, in particolare dei Radicali e di Fratelli d’Italia al Senato ha fatto saltare i nervi all’ambasciatore cinese a Roma. Ha usato il termine «irresponsabile» nei confronti di un’iniziativa del Parlamento italiano, depositario della sovranità nazionale. Non è un aggettivo comune nella diplomazia fra Stati.

La domanda che ci poniamo è come mai la Cina osi tanto. Gioca di certo la debolezza dell’esecutivo italiano che, mentre il presidente francese Macron senza firmare nulla fa accordi commerciali per 20 miliardi, si accontenta per ora dell’export di agrumi. Ma balza in evidenza un problema complessivo di tenuta dell’Unione Europea di fronte all’offensiva cinese. Basti qualche cifra: la metà di tutte le auto nuove della Volkswagen viene venduta in Cina, per Mercedes siamo al 28% per Bmw al 25%. Nella meccanica l’11% dell’export nel 2018 va in Cina. Negli ultimi dieci anni l’interscambio tra Germania e Cina è raddoppiato. Senza la Cina la Germania sarebbe in recessione e la disoccupazione dal 4,8% attuale salirebbe a livelli italiani. Trump ha posto i dazi e ha dato il segnale. L’Europa non può farlo. In questi anni molte imprese dell’impero di mezzo hanno operato in regime di vantaggio anche in ragione delle sovvenzioni dello Stato cinese alle imprese e dei vincoli imposti alle aziende occidentali in Cina. Ma l’Occidente ha taciuto e ha chiuso gli occhi. Abbagliati da un mercato cinese apparentemente senza fine con il suo miliardo e mezzo di possibili utenti le industrie occidentali hanno sacrificato milioni di posti di lavoro per dare spazio alla nuova classe media cinese, circa ottocento milioni di individui che acquistano, automobili e macchinari tedeschi, cibo prodotti del lusso italiani e soia americana.

Di questo anche in Germania sono consapevoli ma si sono legati le mani da soli. I tedeschi non si sono fidati dei loro partner europei e hanno preferito puntare tutto sull’export e non sul rilancio della domanda interna europea. Seduti sulla montagna dei surplus dell’export hanno tralasciato la ricerca strategica di nuovi sistemi di mobilità e accumulato ritardi nelle tecnologie per l’auto elettrica e autoguidata, nella rete ultraveloce, nelle banche, piene di derivati e a Brexit compiuta, prossime a saltare. Adesso sono esposti alla sfida americana e all’esposizione cinese. I tedeschi sono diventati vulnerabili quanto gli italiani, se pur in modo diverso. A Roma e a Berlino devono però capire che solo nell’Unione Europea è possibile trovare una soluzione ai loro problemi. Con una certezza: autonomia e valori della tradizione europeo-occidentale sarebbero in salvo.

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