Nord e Sud, due facce
di un Paese in affanno

Ciò che riemerge in questo tormentato anno politico è il fiume carsico che ha segnato nel tempo un po’ tutta la storia nazionale italiana: l’ambivalente rapporto tra il Nord e il Sud del Paese. Il decreto Genova nato per la ricostruzione del ponte rischia di diventare in corso d’opera un lasciapassare per il condono edilizio di Ischia. Così la tragedia di un terremoto s’intreccia con le colpe e le vergogne dell’abuso privato, l’illegalità che si annida pericolosa in ogni giungla edilizia. Due facce del Paese.

Costruire un ponte per far lavorare Genova, dare ad Ischia una nuova occasione per piangere. Alla prossima calamità le case costruite senza scrupoli non terranno, ed alte saliranno al cielo le richieste di risarcimento dei loro proprietari. Che lo Stato pagherà con i soldi dei contribuenti. Da qui la percezione diversa dell’autorità statale. L’idea che lo «Stato siamo noi» non è ugualmente condivisa in tutta la penisola. È un problema reale ed è il problema che rende di fatto impossibile per l’Italia il sogno di assurgere al ruolo di grande Paese. I francesi si sono uniti nel segno della buona amministrazione, gli inglesi nel segno della buona economia, i tedeschi della forza militare. In Italia invece sono prevalse le realtà locali e lo Stato è spesso percepito come terzo.

L’alta imposizione fiscale italiana non contribuisce a smussare il contrasto tra Nord e Sud, anzi esalta la voglia del primo di liberarsi del secondo, percepito come una zavorra. Anche questo spiega il disagio delle classi produttive che aspirano all’autonomia e, per bocca dei presidenti di Regione del Veneto, della Lombardia, del Friuli Venezia Giulia e dell’Emilia Romagna, chiedono di poter godere di una deregolamentazione.

Portato a livello regionale, il processo decisionale si accorcia e si creano spazi per una maggiore flessibilità. Fatica a farsi strada il principio del bene comune, anche per questo paghiamo molto la difficoltà di riformare la burocrazia statale: prima che un sistema è una mentalità.

Tutto questo è emerso in forma paradigmatica con l’attuale governo. Si avverte talvolta la mancanza di una strategia di respiro nazionale e si perseguono solo obiettivi per il proprio elettorato. Il quale è localmente definito: al Sud il reddito per chi non lavora e non può lavorare per mancanza di un’offerta credibile, al Nord la pensione perché, appunto, si è lavorato. Questo governo ha reso evidente ciò che prima era scritto tra le righe. E sarebbe anche sensato per la parte produttiva del Paese tacitare i focolai di protesta al Sud con una «mancia istituzionalizzata». A condizione che si elabori una strategia di sviluppo che comporti il rilancio industriale del Paese e quindi il risanamento del Meridione.

C’è poi il problema della malavita organizzata. Non la si elimina in un colpo quando è radicata sul territorio, ma riacquistare la sovranità e l’imperio della legge è la prima condizione per un Paese civile. Le risorse non ci sono, e questo spiega il caos di questi giorni. Tutto è cambiato ma ancora una volta sono solo aggiornamenti, con nuovi attori. Si grida, si urla, si insulta per farsi poi guidare dal solo criterio stringente: l’emergenza. L’unica alla quale tutti sanno obbedire. Ed è il destino di chi vede il particolare con tale intensità da perdere di vista l’interesse generale. La saggezza del ministro dell’Economia Giovanni Tria aveva portato all’accordo già a giugno, ma ai due contendenti Salvini-Di Maio non andava bene. Volevano visibilità. L’hanno avuta.

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