L'Editoriale
Mercoledì 17 Giugno 2020
Non solo grandi opere
Curiamo le piccole
Per anni l’Automobil club tedesco (Adac) ha chiesto alle autorità italiane di poter testare il livello di sicurezza delle gallerie sulla rete stradale della penisola. Permesso regolarmente negato. Finché nel 2003, ovvero diciassette anni fa, una squadra di tecnici inviata da Monaco di Baviera di nascosto si mette a controllare i tunnel. Naturalmente nessuno se ne accorge fin quando non viene pubblicato il bollettino dell’associazione dove si scopre che la maggior parte delle gallerie non dispone di impianti di sicurezza e di vie di fuga previste dalla normativa. Succede un incendio come quello del tunnel del Gottardo del 24 ottobre del 2001 e nei tunnel italiani gli automobilisti malcapitati farebbero la fine del topo in trappola. La denuncia non sortisce effetti.
Passano 15 anni e il ponte Morandi crolla. A quel punto le autorità preposte alla sicurezza si destano dal grande sonno, nel frattempo divenuto incubo. Hanno sulla coscienza 43 morti, vittime dell’incuria. Il 30 dicembre dello scorso anno crolla la galleria Bertè dell’A26. Nel frattempo tra le carte dell’inchiesta per il ponte Morandi spunta un dossier del Consiglio superiore dei lavori pubblici inviato due mesi prima della tragedia al ministero e alle autorità competenti dove si afferma che 200 gallerie sono a rischio crolli e comunque la maggior parte delle strutture segnalate non rispondono alla direttiva europea 54 del 2004 sui requisiti minimi di sicurezza.
Sono privi di impermeabilizzazione e soggetti a infiltrazioni di acqua e quindi a rischio crolli. Mancano di sistemi di sicurezza, di corsie di emergenza e vie di fuga, di videosorveglianza, di sensori di rilevamento fumi e sistemi di allarme antincendi, e di luci di guida in caso di evacuazioni. Ci sono voluti 15 anni per scoprire quello che i tedeschi preoccupati dopo la tragedia del Gottardo per i propri connazionali in vacanza in Italia avevano segnalato. Sono gli anni in cui il Paese in toto si è adagiato sugli allori di un benessere che pareva indissolubile ed anche quando è arrivata la crisi del 2009 gli unici a non reagire sono gli italiani. La produttività decresce o è stagnante dagli anni ’90. Troppa burocrazia, troppa evasione, un fisco borbonico ed una giustizia fatta di cavilli disincentivano l’iniziativa privata e tengono lontani gli investitori. Christine Lagarde, presidente della Bce, l’ha ricordato nel suo intervento agli Stati generali di Villa Doria Pamphilj: la politica monetaria non basta. I governi si devono muovere e occorre combattere le rendite di posizione. Il grande problema italiano è la messa in opera dei provvedimenti. Cioè rendere operative le misure deliberate dagli organi esecutivi. Se si deve finanziare la cassa integrazione occorre che i soldi arrivino subito. Se si decide la cura di un’opera pubblica già in esercizio occorre che si proceda in modo spedito e senza cavilli. In Italia c’è il mito della grande opera, che faccia sognare e sia un monumento.
Ma finiti i lavori tutti pensano al prossimo evento e la manutenzione diventa cenerentola. Ed è anche un calcolo. Sui grandi numeri si guadagna , sui piccoli si rosica e si perde il fascino della grande avventura. La quotidianità annoia. Ecco, se c’è una differenza con gli altri Paesi europei è proprio questa: manca l’ impegno di tutti i giorni, la passione che rende l’opera pubblica di tutti e quindi anche di chi la segue e la monitora. Il cittadino italiano è esigente con sé stesso e attento al proprio bilancio familiare. Su quello pubblico è distratto e assente. C’è voluta una tragedia come la pandemia per rendere evidente che la cosa pubblica è una missione ed è di tutti.
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