Non sappiamo più cercare il bene che ci unisce

L’editoriale Nei giorni scorsi i telegiornali avevano mostrato il video di Fabio Ridolfi che ha scelto di porre fine alle sue sofferenze tramite la sedazione profonda e continua prevista dalla legge sul fine vita. Ieri mattina, i media hanno dato notizia che la sedazione profonda era stata avviata e in serata è arrivata la notizia della sua morte.

Qualche giorno fa, attraverso il puntatore ottico, il 46enne marchigiano immobilizzato a letto da 18 anni a causa di una tetraparesi aveva scritto: «Da due mesi la mia sofferenza è stata riconosciuta come insopportabile. Ho tutte le condizioni per essere aiutato a morire. Ma lo Stato mi ignora. A questo punto scelgo la sedazione profonda e continua anche se prolunga lo strazio per chi mi vuole bene». Parole che suonano prima di tutto come un drammatico atto di accusa per una società che non è stata in grado di prendersi cura di lui e di tanti altri malati lungodegenti per cui ogni giorno rischia di diventare un peso intollerabile e la morte l’unica via d’uscita.

Ridolfi aveva chiesto di poter applicare la sentenza 242 del 2019 con la quale la Corte costituzionale depenalizzava, a precise condizioni, alcuni casi estremi di ricorso al suicidio assistito, rimandando però al Parlamento la responsabilità di dettare le norme relative. La legge è stata approvata alla Camera lo scorso marzo, ora è al Senato, dove riprenderà la discussione. Nel mentre ci sono state le audizioni degli esperti esterni. Maurizio Pompili, ordinario di psichiatria alla Sapienza di Roma, ha detto che «occorre garantire un aiuto psicologico allo scopo di capire se c’è sofferenza mentale che può essere trattata per prevenire il suicidio». Antonino Giarratano, presidente della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva, ha ribadito la necessità di «potenziare la rete di cure palliative e quella del dolore cronico» come alternativa al suicidio assistito e all’eutanasia. Servono però centri di terapia adeguati e diffusi sull’intero territorio nazionale. Perché sarebbe inammissibile erogare come servizio sanitario, la morte «a richiesta», prima di aver tentato tutte le strade possibili per migliorare le condizioni di vita dei cittadini affetti da malattie gravi.

A sostegno di Ridolfi si è schierata l’Associazione radicale Luca Coscioni, che si batte per legalizzare l’eutanasia e che chiedeva l’accesso immediato alla morte medicalmente assistita del paziente marchigiano anche in assenza di una legge. Ora i nodi vengono al pettine. La nuova legge sulla «morte volontaria medicalmente assistita» prevede che il «supporto e il sostegno del Servizio sanitario» deve essere prestato all’atto «autonomo» con cui il malato «pone fine alla propria vita in modo volontario», in tal modo si chiede un coinvolgimento del medico in tutto quello che riguarda la preparazione del gesto che poi la persona compirà. Ma c’è chi sostiene che si debba dare la possibilità di morire anche ai malati immobilizzati che non possono compiere alcun «atto». Per questi casi l’intervento del medico diventa necessario. Da qui la richiesta che non ci sia possibilità di obiezione di coscienza da parte dei medici e personale sanitario. L’attuale proposta di legge invece prevede l’obiezione di coscienza. Così bisognerà decidere se basti il parere del medico generico e non anche quello dello specialista della patologia di cui soffre il paziente per aver accesso alla morte assistita. Oppure, come è stato proposto, che la persona venga presa in carico da più figure professionali e assistenziali come lo psicologo, il medico palliativista, l’assistente domiciliare. In modo che si crei una rete di cura e di aiuto. I radicali vogliono una legge agile che non abbia troppe clausole che rendono difficile l’accesso alla morte stessa. Non va bene quindi che l’accesso alla morte assistita sia consentito solo dopo che l’interessato ha usufruito delle cure palliative. Ma così si rischia di lasciare le persone sole a decidere in un momento cruciale e sofferto della propria vita e soprattutto senza fare ancora tutto quello che è ancora possibile - e giusto - fare. Le «cure palliative» rappresentano un accompagnamento costante della persona malata per arrecare sollievo alle sue sofferenze e sostegno ai suoi cari.

Molto toccante la riflessione dell’arcivescovo di Pesaro, Sandro Salvucci, sulla vicenda di Fabio Ridolfi: «Perché dietro ad ogni richiesta di suicidio o di eutanasia, non vi è la conquista di diritti civili, ma la sconfitta di una società che non riesce più a cercare quel “bene che ci accomuna”, divenendo così sempre più incapace a star vicino alle persone e a trasmettere un senso anche in una situazione di difficoltà come quella di un malato che non può muoversi. Ogni vita umana ha un senso. Tuttavia, se manca questo rapporto intimo, di compassione, di amicizia inevitabilmente la vita è difficile da comprendere e le persone possono arrivare a voler morire. Si tratta di continuare a sussurrare al suo cuore: “Tu sei per me importante: la tua vita vale!”».

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