Non disperdiamo
i nostri giovani

Esiste una curiosa ricorsività su alcuni temi della scuola che appaiono ritornare ciclicamente, di volta in volta rilanciati attraverso i media a partire da un’indagine statistica, da un fatto di cronaca, da una occasione contingente; è così che l’attenzione dell’opinione pubblica si accende rapida sui compiti delle vacanze, sul turnover dei supplenti, sulle più o meno significative modifiche di un esame di stato, ecc., ma, altrettanto rapida, si dilegua e scompare trascinando con sé i problemi strutturali sottesi a questi stessi temi. Accade questo anche per quanto riguarda la dispersione scolastica e il tempo di permanenza dei nostri giovani all’interno del sistema d’istruzione, tema da far tremare i polsi a chi, al suo interno, ha responsabilità politiche, di governo e di gestione, così come a chi, all’esterno di questo sistema, si occupa di politiche del lavoro giovanile, di prospettive economiche, di sviluppo e miglioramento del cosiddetto «capitale sociale» di un Paese.

Invece no, non è così: l’opinione pubblica riserva a questo tema la stessa, rapsodica attenzione di cui si diceva e con nonchalance accende e spegne i riflettori sulle preoccupazioni per quel 24,1% di ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano (i cosiddetti «Neet», acronimo dell’inglese Not - engaged - in education, employment or training) o per quel 14% di giovani (in Sardegna e in Sicilia il dato sale al 21%) tra i 18 e i 24 anni che, con la sola licenza della scuola secondaria di primo grado, non risultano inseriti in alcun percorso di istruzione o formazione.

Eppure, sono sufficienti davvero poche considerazioni per comprendere come questo fenomeno, i cui dati ci arrivano in questi giorni aggiornati dall’Istat, rappresenti un vero e proprio vulnus per il nostro Paese. Prima considerazione: è noto come l’Italia abbia un tasso di natalità più che preoccupante, che la porta a perdere, nel solo 2017, circa 180.000 persone; altrettanto noto come i 464.000 nati dello stesso anno saranno in serie difficoltà, tra vent’anni, a sostenere il peso economico e sociale di un Paese sempre più «vecchio» anagraficamente. Si tratta di un trend di decrescita costante da oltre 30 anni ma che sembra non incrociarsi mai con questa semplice riflessione: abbiamo pochissimi giovani, di questi 1 su 4, nel 2017, rientra tra i Neet, non lavora, non studia, difficilmente è in grado di costruire un proprio personale progetto di vita che lo veda parte attiva e responsabile nella realtà sociale del nostro Paese. Possiamo permetterci questo?

Seconda considerazione: se la risposta a questa domanda è negativa, quale altra alternativa sarebbe ragionevole abbracciare se non quella di una riflessione culturalmente forte, intenzionale e sistematica, capace di definire scelte di politica scolastica atte a favorire quei cambiamenti che nella scuola potrebbero fermare l’emorragia di giovani che l’abbandonano, che non riescono a trovare al suo interno ragioni ed interessi per rimanere ed impegnarsi ad imparare? È evidente che una scelta di questo genere vorrebbe dire ripensare molti aspetti strutturali del nostro sistema d’istruzione, sostituendo, innanzi tutto, la rigidità organizzativa che oggi lo contraddistingue con la flessibilità necessaria per dare risposte adeguate a bisogni formativi sempre più eterogenei, a situazioni individuali sempre più lontane da un inesistente allievo «medio». Vorrebbe dire anche pensare un sistema formativo capace di scoprire e valorizzate capacità personali anche diverse rispetto a quelle linguistiche e logico-matematiche, tradizionalmente perseguite nella nostra scuola, magari alternando momenti di studio teorico a momenti di attività pratiche e concrete; scuola e lavoro, insomma, entrambi riconosciuti formativi, sia pur nella loro diversità.

Terza considerazione: quale insegnante potrebbe mai essere in grado di affrontare il problema della dispersione scolastica? Un insegnante con una formazione mirata, precisa, robusta, non solo dal punto di vista disciplinare, ma anche dal punto di vista pedagogico, didattico e psicologico, è ovvio! Perché mai, dunque, questo profilo professionale e la sua coerente formazione non trovano la forza culturale e politica che le affermi, le sostenga e le faccia diventare solida realtà, sistematicamente diffusa in tutto il Paese?

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