Nessuna grande novità tra inciampi e sgambetti, ora il confronto arriva in tv

Ora che le liste sono state ufficialmente consegnate, e si contano vincitori e vinti, miracolati e sgarrettati, «blindati» e sicuri trombati grazie alla legge elettorale più bislacca che mai Parlamento abbia scritto, possiamo finalmente dire, come tutte le altre volte, che «questa è la campagna elettorale più brutta di sempre». È il ritornello che ci ripetiamo da decenni - non ne era immune neanche la Prima Repubblica, solo che allora non c’era l’immondezzaio dei social - e magari ogni volta è vero, magari la traiettoria dei nostri confronti elettorali punta sempre di più al basso, e l’appuntamento corrente è destinato a superare il record precedente.

Certo lo spettacolo che si va allestendo di fronte agli italiani - quanti saranno questa volta gli astenuti? - ci mostra leader - nessuno di caratura storica, ammettiamolo - che si tirano addosso gli stracci senza troppe timidezze. È quello che succede soprattutto tra i due principali competitori del momento, da una parte Enrico Letta e dall’altra Giorgia Meloni: lei che su Twitter dice che spera di vedere un giorno solo giovani italiani «sani» e «non devianti», e l’altro che gli risponde che «ama le devianze», in un cortocircuito ideologico-identitario in cui il merito delle questioni - la questione giovanile, e scusate se è poco - è completamente negletto e dimenticato. Uguale scandalo tra Giorgia che ri-pubblica sui soliti social un video semi-oscurato in cui una povera donna di Piacenza viene stuprata da un extracomunitario, e tutti gli altri se la prendono più con il video che con lo stupro in sé. Coriandoli di dibattito di un grande e indebitato Paese europeo nel pieno di una gigantesca crisi geopolitica, bellica, climatica, economica, energetica, e via elencando.

Dicevamo le liste. Poche novità rispetto alla vigilia della chiusura. Nel Terzo polo, tanto per trovarne qualcuna, restano all’uscio e assai delusi Pizzarotti di Parma e l’ex sindaco di Milano Albertini ma entrano i fratelli Pittella, grandi drenatori di voti in Basilicata, che abbandonano il Pd. In Forza Italia Tajani e gli altri capi si sono dovuti rifugiare in un albergo segretissimo per resistere agli assalti. Dalla Casellati (esclusa dalla sua Padova e candidata altrove) in giù, tante vittime del micidiale taglio dei parlamentari. Spuntano però Rita Dalla Chiesa in Puglia e Stefania Craxi in Sicilia (suo fratello sta col centrosinistra). Nel frattempo Conte fa saltare l’accordo col Pd per le regionali in Sicilia e si becca l’accusa di «alto tradimento»: era l’ultimo legame tra i due ex alleati. La Meloni si affida ad un terzetto di veterani, Tremonti-Terzi di Sant’Agata-Nordio, in cui molti già vedono i ministri dell’Economia, degli Esteri e della Giustizia. Nel Pd dopo una prima sbandata a sinistra, recuperano i candidati «riformisti»: ripescati Ceccanti, Nannicini, Bentivogli. Però i giovanissimi capilista inanellano brutte figure: quello paragonava Israele a Hitler, quell’altro esaltava Lenin.

Chiuse le liste, adesso l’attenzione dei capi si sposta sulla televisione. Letta e Meloni vogliono litigare da soli in santa pace nell’ufficialissima Porta a Porta di Bruno Vespa, siglando così un patto tacito tra protagonisti; tutti gli altri naturalmente non ci stanno e protestano: le televisioni concorrenti offrono loro ponti d’oro e progettano mega dibattiti tra tutti cui però, guarda caso, Letta e Meloni non hanno alcuna voglia di partecipare, facendo così mancare il piatto forte della serata. La vecchia televisione generalista, per quanto ammaccata dalla debordante presenza tictocchesca dei social, è pur sempre la regina della campagna elettorale: è lì che si stabilisce, prima del voto, chi vince e chi perde. Poi magari i risultati delle urne - come è successo tante volte in passato - sono l’esatto contrario di quel che ha fatto presagire lo spettacolo. Eppure nessuno ci vuole rinunciare per dire la propria nella «campagna elettorale più brutta di sempre».

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