Mosca adesso ha fretta, così i rischi aumentano

Tra gli stucchi dorati e i tappeti rossi del Cremlino si consuma oggi quella che potrebbe diventare una delle pagine più drammatiche della storia contemporanea. Vladimir Putin firma l’annessione alla Russia delle Repubbliche di Donetsk e di Lugansk, e dei territori delle regioni di Kherson e Zaporozhye controllate dai russi.

E nessuno, nemmeno lui, può sapere quali saranno le conseguenze di un tratto di penna che, dopo otto anni di guerra a bassa intensità e sette mesi di conflitto totale, pretende di strappare all’Ucraina il 15% più ricco di risorse del suo territorio. Già giovedì (29 settembre), a Mosca, circolavano voci sempre più frenetiche sul fatto che durante la cerimonia Putin, oggi, avrebbe fatto un discorso forte, decisivo. E molti, ovviamente, hanno cominciato a fare i conti con la minaccia che terrorizza tutti e che molti leader, dalla ex cancelliera tedesca Angela Merkel al presidente ucraino Volodymir Zelensky, invitano a prendere sul serio: l’utilizzo di bombe atomiche tattiche. Una cosa è certa: Putin adesso ha fretta. Il modo stesso in cui sono stati gestiti i referendum, in pratica dieci giorni tra la convocazione al voto e l’annessione, lo dimostra. E altrettanto dimostra la rapidità con cui è stata decisa e attuata la mobilitazione dei circa 300mila riservisti, le cui avanguardie sono già arrivate in Ucraina.

Conta la situazione sul campo di battaglia, dove l’esercito di Kiev sta raccogliendo successi. E forse conta anche la pressione delle sanzioni economiche. Ma più di tutto, crediamo, pesa sul Cremlino la situazione internazionale. Per molti mesi la Russia è riuscita a galleggiare su un equilibrio che la favoriva. Aveva l’Occidente compatto contro, ma molti Paesi importanti si erano sfilati, in cerca di autonomia e di vantaggi. Cina, India e Turchia, per fare solo qualche esempio, non avevano aderito alle sanzioni e, di fatto, spalleggiavano la Russia consentendole di difendere la stabilità economica e finanziare la guerra. La Cina importando gas e petrolio a tutto spiano ed esportando la tecnologia che Mosca non poteva più comprare in Occidente. L’interscambio commerciale tra Russia e Cina a fine 2022 toccherà i 200 miliardi di dollari, l’anno scorso aveva raggiunto i 146 e già pareva un record insuperabile. L’India, appena è partita l’invasione russa, ha cominciato a importare petrolio russo come mai prima. E l’astuto Erdogan, pur tenendosi in bilico tra Mosca e Kiev, ha comunque offerto alla Russia un transito commerciale e finanziario decisivo per arrivare anche ad altri mercati.

Tutto questo sta franando. Perché una breve stagione di caos può convenire a molti, soprattutto a quelli che cercano di guadagnare posizioni. Ma una lunga stagione di caos danneggia tutti. E la guerra in Ucraina sta durando troppo. Questo è stato, chiaramente, il messaggio che Cina, India e Turchia hanno recapitato a Putin durante il summit della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai che si è tenuto due settimane fa a Samarcanda. Non a caso, appena finito il summit, il Cremlino ha dato il via all’operazione referendum.

Bisogna adesso vedere quanto Putin vorrà, o per meglio dire dovrà, schiacciare l’acceleratore. Con l’annessione dei territori ucraini ha tracciato un confine, minacciando di difenderlo anche con le bombe atomiche. È davvero pronto a farlo? Ma soprattutto: potrà accontentarsi di qualcosa meno della «liberazione» totale del Donbass e del Sud dell’Ucraina, obiettivi più e più volte dichiarati come irrinunciabili? E come potrà ottenerla, essendo ora sulla difensiva sul campo di battaglia, nell’agone internazionale e persino in casa, dove il suo indice di approvazione ha perso 6 punti percentuali dopo la mobilitazione? Abbiamo finora vissuto momenti orribili, a causa di questa invasione. Ora viviamo quelli più pericolosi.

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