L'Editoriale
Sabato 12 Febbraio 2022
Morte in pillola
domande evitate
Vox clamantis in deserto «voce che grida nel deserto». Tale sembra essere la voce di Papa Francesco per media e politica. Non che debba essere ascoltata più di altre, ma almeno considerata. Dire che «la morte va accolta, non provocata» e che è «disumano accelerarla negli anziani» non credo significhi schierarsi da una parte piuttosto che dall’altra nel dibattito in corso in Parlamento per l’approvazione della legge su «Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita». Piuttosto aiuterebbe a «riconsegnare alla morte un ruolo positivo» come ha detto il Papa.
Perché questo è il punto: viviamo come se la morte non dovesse esserci e la sofferenza non dovesse riguardarci. Terminare la propria vita senza dolori, senza disturbare nessuno e soprattutto riuscire ad accogliere serenamente l’evento della morte è uno degli ideali dell’uomo. Eppure questo evento è sottratto alla volontà e non è mai stato vissuto nella tradizione occidentale, fino ai nostri giorni, come programmabile. Solo nella nostra epoca il problema è stato sollevato in maniera cruda, quasi che la razionalità dovesse impadronirsi, per gestirlo, dell’ultima fase dell’esistenza terrena, ripudiando tutta una tradizione che nel momento della morte, seppur nel dolore, non smette di affermare il valore della vita. Nella società del benessere e dell’individualismo la morte non è più di casa e se lo è deve sottostare ai nuovi diritti come quello «di morire» e «di non soffrire». Dimenticando che sofferenze e morte appartengono all’uomo reale che ama e gioisce, soffre e spera e che muore.
Prima di legiferare sull’eutanasia si dovrebbe riflettere sulla vita. Perché concepire la morte nel senso dei fautori dell’eutanasia non è una risposta alla domanda dell’uomo di fronte alla morte, ma una soluzione tecnica, risolvibile con decisioni politiche e leggi sempre più dettagliate. Il rischio di una nuova legge è quello di aumentare la casistica giuridica sottraendo le decisioni al rapporto medico-paziente e familiari. Le condizioni per agevolare il suicidio assistito poste nel 2019 dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 242) stabiliscono che la persona deve essere «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Queste condizioni rispecchiano la situazione clinica in cui si trovava dj Fabo. C’è da dire che la descrizione dettagliata delle condizioni cliniche necessarie per chiedere l’assistenza nel morire, per quanto precise, con il tempo tendono ad appannarsi. Ne è esempio quanto sta avvenendo in Belgio circa la «polipatologia», una situazione in cui la sofferenza non deriva da una specifica malattia, come richiesto dalla legge, ma da una combinazione di diverse e sfumate disfunzioni. Nel loro insieme, però, esse finiscono per consentire l’assistenza al suicidio (o l’eutanasia): si tratta di condizioni molto frequenti nell’età anziana, che giungono a riguardare anche la «stanchezza di vivere».
Le medesime difficoltà a precisare cosa includere o escludere dai «trattamenti di sostegno vitale» si è presentata per il Comitato etico delle Marche nel caso del signor «Mario», paziente tetraplegico, che non usufruisce di trattamenti abitualmente considerati come di sostegno vitale (ventilazione, idratazione e nutrizione artificiali), ma da dispositivi e manovre che «svolgono un ruolo sussidiario» (come pacemaker cardiaco, catetere vescicale ed evacuazione manuale). Però la loro interruzione potrebbe procurare complicanze tali da condurre al decesso, a meno di interventi invasivi e fonte di ulteriori sofferenze. Il Comitato etico ha però concluso che le condizioni poste dalla sentenza n. 242/2019 sono soddisfatte. Ora l’Azienda sanitaria unica regionale ha scelto il farmaco e le modalità di autosomministrazione. Come si può vedere anche stabilendo delle condizioni l’estensione ad altri casi diventa inevitabile. Nei Paesi in cui l’assistenza alla morte volontaria è legalmente consentita attestano ampliamenti dovuti a pronunce legislative, pratiche «mediche» adottate, ma anche eco mediatico appositamente studiato. C’è anche da chiedersi se spetta a un comitato «etico» «verificare le condizioni cliniche richieste», quando si tratta di esprimere un giudizio tecnico di conformità tra le condizioni previste dalla sentenza della Corte e la concreta situazione clinica del paziente. Il giudizio è più di tipo tecnico che propriamente etico. A meno che si voglia riconoscere che una tale decisione è moralmente rilevante perché permette di porrer fine alla vita di una persona. Ma allora lo Stato non sta rischiando di andare oltre i suoi compiti volendo amministrare quel «mistero» che avvolge l’inizio e la fine della vita e chiede di essere rispettato, accompagnato e amato?
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