Minoranze cristiane
Il lockdown perenne

Tra gli indicatori per misurare il tasso di democraticità e di liberalità di uno Stato, la condizione di vita delle minoranze è tra i più importanti. Molto basso o nullo nei regimi laici e religiosi, alto nelle democrazie occidentali (anche se non mancano problemi di vera integrazione sociale ed economica dei gruppi minoritari, tanto più in questa stagione segnata dal Covid che sta allargando la forbice delle disuguaglianze). Ci apprestiamo a vivere un Natale di restrizioni a causa del coronavirus, ma è niente rispetto alle condizioni di lockdown quotidiano a cui sono costrette molte minoranze cattoliche e cristiane nel mondo. Secondo la lodevole fondazione «Aiuto alla Chiesa che soffre», la quale monitora la situazione attraverso i fatti di cronaca e le denunce, oggi un battezzato su sette vive in terre di persecuzione e su 196 Paesi, 38 sono teatro di violazioni gravi o estreme della libertà religiosa.

In questa classifica del dolore la maglia nera va all’Arabia Saudita (alleata degli Usa ma anche dell’Italia, alla quale vendiamo armi), dove vivono due milioni di cattolici, soprattutto lavoratori immigrati filippini, su 27 milioni di abitanti. I culti non musulmani sono proibiti per legge. Convertire dall’islam a un’altra religione o rinunciare all’islam è considerato apostasia, reato che può essere punito anche con la pena di morte. È vietata qualsiasi manifestazione pubblica della fede cristiana, la polizia religiosa saudita ha il compito di reprimere le celebrazioni clandestine e ai sacerdoti cattolici è negato l’ingresso nel Paese. Del resto è lo Stato che ha dato spinta, esportandoli, al wahabismo e al salafismo, le forme più fanatiche dell’islamismo alle quali si ispirano gli jihadisti.

Terra di morte è poi la Nigeria (21 milioni di cattolici su 124 milioni di abitanti) del Nord, dove gruppi jihadisti, in particolare Boko Haram affiliato allo Stato islamico, compiono scorribande sanguinarie nei villaggi, uccidono, sequestrano studenti e sacerdoti, bruciano chiese. Al punto che nell’agosto scorso i vescovi locali hanno chiamato la popolazione all’autodifesa, vista l’inerzia del governo nel proteggere la minoranza.

Nella classifica c’è poi l’Afghanistan, dove i cattolici sono un gruppetto (la Repubblica islamica non riconosce alcun cittadino afghano come appartenente al cristianesimo e c’è solo una chiesa legalmente riconosciuta, all’interno del quartiere diplomatico di Kabul, non aperta ai locali), un centinaio, nel mirino dei raid dello Stato islamico e dei Talebani con i quali il presidente uscente degli Usa Donald Trump ha stretto un’intesa per un nuovo governo che comprenda gli ex nemici e renda possibile un veloce ritiro delle truppe americane. Al quarto posto una dittatura laica, la Corea del Nord (5 milioni di cattolici su 52 milioni di residenti, non è riconosciuta la libertà di culto).

Questi quattro Stati nella classifica sono segnati in nero. Poi ci sono quelli in rosso, come l’Iraq, dove i cristiani erano quasi un milione prima della guerra scatenata nel 2003 dagli angloamericani «per esportare la democrazia» e oggi sono 300 mila. La lista dei Paesi che discriminano la minoranza cattolica comprende anche l’India, dove il primo ministro Narendra Modi fomenta il fondamentalismo indù. Il problema con il quale si confrontano le minoranze non è il rapporto con la popolazione locale ma l’estremismo violento di gruppi, tanto più quando è strumentalizzato dai governi. Ne sono vittime, in questi casi da parte del potere politico, anche le minoranze musulmane in Cina (Uiguri) e in Myanmar (Rohingya).

Le minoranze cattoliche vivono una religiosità semplice, fatta di preghiera, riti, opere d’aiuto aperte a tutti e rispetto delle regole restrittive imposte. Comunità di fede, di testimonianza esemplare e spesso di martirio. In Algeria è composta da 5 mila persone su 34 milioni di abitanti. È qui che nel 1996 il Gruppo islamico armato uccise sette trappisti nel monastero di Tibhirine, dichiarati Beati nel 2018. Il monastero è rimasto vuoto per tanti anni, ora riabitato da una comunità religiosa francese.

Poco prima di essere ucciso, padre Christian De Chergé, priore dell’abbazia, scrisse nel testamento spirituale: «Se mi capitasse un giorno - e potrebbe essere oggi - di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia, si ricordassero che la mia vita era “donata” a Dio e a questo Paese. Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come essere trovato degno di una tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato».

© RIPRODUZIONE RISERVATA