L'Editoriale
Giovedì 11 Luglio 2019
Mini rimpasto
La Lega guida
Il mini rimpasto di governo effettuato ieri è la dimostrazione che leghisti e grillini hanno concordato di andare ancora avanti insieme e di non precipitare verso elezioni politiche anticipate. O meglio: è la dimostrazione che i leghisti, usciti vincitori delle elezioni europee, hanno deciso che è per loro più conveniente andare avanti col governo e non correre ad elezioni anticipate nonostante che a urne aperte potrebbero capitalizzare non solo i risultati delle europee ma addirittura gli incrementi di consenso che i sondaggi hanno rilevato nel pieno della «battaglia» con le ong nel Mediterraneo.
In cambio la Lega sta ora raccogliendo porzioni di potere aggiuntive sia nella squadra ministeriale (il ministero degli Affari europei già di Paolo Savona ora affidato a Lorenzo Fontana, a sua volta sostituito dalla deputata comasca Alessandra Locatelli) sia nel sotto-governo.
A questa decisione di Salvini, presa nonostante i mugugni di diversi dei suoi, Di Maio si acconcia volentieri ben sapendo che, se si votasse oggi, il M5S risulterebbe dimezzato e scenderebbe irrimediabilmente dal carro del potere. Ciò non toglie che il presidente del Consiglio Conte lamenti la continua divergenza tra i ministri dei due partiti (per esempio sull’immigrazione ma non solo) e provi a ridurre ad una la voce del governo: proposito assai lodevole che ricorda le liturgie della Prima Repubblica dove tuttavia mai un richiamo all’ordine di Palazzo Chigi potè essere più efficace degli interessi elettorali dei partiti.
Tuttavia, al di là delle tante divergenze che si manifestano ogni giorno - basti guardare al continuo rinvio della Autonomia regionale - la rottura non viene mai cercata, e si capisce, soprattutto da Di Maio. Il quale, tanto per fare l’esempio più attuale e clamoroso, si è ben guardato dallo staffilare l’alleato sullo scandalo – vero o presunto ancora non si sa – dei fondi russi alla Lega. La pubblicazione delle registrazioni dei colloqui durante un incontro a Mosca tra esponenti leghisti e rappresentanti del governo russo che dimostrerebbero uno scambio di favori, non ha dato luogo in casa grillina alle manifestazioni di protesta cui ci avevano abituato ai tempi dell’opposizione: occupazione delle aule parlamentari e dello scranno del governo, insulti, arrampicate sui tetti di Montecitorio, comizi con tanto di altoparlanti di fronte alla Camera, ecc. Niente di tutto ciò. Solo la rivendicazione di una propria esibita «verginità» morale. Niente altro, niente che possa dare l’impressione a Salvini che il suo alleato «ci stia marciando». Del resto quando il capo leghista si è scontrato duramente con il sottosegretario pentastellato Spadafora, anche in quel caso Di Maio si è abilmente defilato. E questo perché l’unica linea che in questo momento unisce il vertice grillino è: andare avanti comunque, sperare che il vento cambi e che i voti tornino a casa, ecc.
E tuttavia è proprio questa linea di resistenza che rischia di aumentare i malumori e i dissensi nella base grillina da parte soprattutto di chi richiama il Movimento alla «purezza» ideologica delle origini. Non va dimenticato che al Senato la maggioranza, con le recenti espulsioni di pentastellati dissidenti, si è ulteriormente assottigliata.
E quando la neo-ministra alla Famiglia Locatelli proseguirà con determinazione sulla linea già tracciata dal suo predecessore Fontana, c’è da immaginarsi che i più sinistrorsi tra i grillini ricominceranno a protestare. Hanno già ingoiato l’allineamento di Di Maio a Salvini sulle ong, difficile che accettino altre misure sgradite in materia di politica della famiglia.
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