
(Foto di Ansa)
ITALIA. Con una decisione che ha sollevato diverse polermiche, venerdì il governo italiano ha prelevato una quarantina di persone di nazionalità straniera, soggette a provvedimenti di espulsione amministrativa dall’italia, ospiti in vari Centri per il rimpatrio (Cpr) sparsi nella Penisola, e le ha trasportate in Albania, nell’ormai celebre centro di Gjader, quello che vorrebbe essere un modello di gestione dei flussi irregolari per mezza Europa, ma che finora è rimasto praticamente inutilizzato.
È il primo effetto del decreto legge del 28 marzo, che modifica il trattato Italia-Albania, istituendo di fatto la possibilità di trasferire oltre Adriatico non solo i migranti respinti in mare, non ancora approdati in Italia, ma anche quelli già sottoposti a espulsione e detenuti nei Cpr in attesa del rimpatrio. Un dispositivo in linea con i più recenti indirizzi suggeriti da un’Unione Europea sempre più sotto il giogo della paura e sempre più incline a incentivare politiche securitarie e di chiusura.
Sulle varie riserve espresse sul decreto, ennesimo tentativo di rendere legale e costituzionalmente coerente l’esternalizzazione di un trattamento di natura amministrativa, quale è il trattenimento in un centro temporaneo in attesa di rimpatrio (rimpatrio che, va detto, si concretizza poi una volta su dieci a causa della mancanza di accordi bilaterali fra Italia e Stati di origine dei migranti), vale la pena qui ricordare che in base alla direttiva rimpatri, i migranti espulsi non possono essere rimpatriati da un Paese terzo. Ragione per la quale, nel caso il provvedimento di espulsione vada a buon fine, i migranti trasferiti in Albania dovranno essere riportati in Italia per essere poi riaccompagnati nel Paese d’origine.
Con costi per lo Stato che è facile immaginare, dato l’apparato che abbiamo visto in azione venerdì durante lo sbarco a Shenjin: due agenti per ogni migrante trasportato. Ma non basta, i 40 avevano pure i polsi legati (non è chiaro se solo durante le operazioni di sbarco o durante tutta la traversata).
Ieri il ministro Piantedosi ha spiegato che si tratta di procedure che condivide, prese in autonomia dagli operatori ma in linea con le prescrizioni, quando si tratta di trasferire «persone limitate della libertà personale anche per effetto di provvedimenti assunti dall’autorità giudiziaria». Per poi aggiungere che tra i 40 ci sono anche persone oggetto di procedimenti giudiziari per gravi reati. Spiegazione senz’altro più esauriente di quella del collega Salvini, che intervenendo all’apertura della scuola di politica della Lega, è volato alto: «E come dovevano trasferirli? Con le mimose? Con la colomba pasquale, con l’uovo pasquale dovevano essere trasferiti?».
Però entrambe le spiegazioni non rispondono alla domanda: perché caricarli su una nave e trasferirli in Albania, dove l’accesso al diritto di difesa è un’incognita, così come le garanzie sanitarie di base? Qualche giorno fa, in forme più roboanti, la Segretaria alla Sicurezza Usa si è fatta filmare in Venezuela davanti a una vera e propria gabbia con oltre 200 venezuelani appena trasferiti dagli Stati Uniti: «Se venite nel nostro Paese illegalmente, questa è una delle conseguenze che potrebbe accadervi» ha detto senza giri di parole in perfetto stile trumpiano, berretto in testa e Rolex in vista.
Ma anche quelle fascette ai polsi dei quaranta migranti trasferiti in Albania, sebbene non così esibite, tradiscono una medesima logica: una gran voglia di mostrare i muscoli, la minaccia come strumento politico, il sacrificio del principio egualitario del diritto di fronte a una propaganda mascherata troppo spesso da pragmatismo.
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