L'Editoriale
Mercoledì 12 Aprile 2023
Migranti, l’emergenza non rientra per decreto
ITALIA. Come già annunciato da giorni, il governo nella riunione di ieri del Consiglio dei ministri ha deciso di decretare lo stato di emergenza su tutto il territorio nazionale per affrontare l’aumento degli sbarchi di immigrati sulle nostre coste.
Da tempo si sapeva che il ministro dell’Interno Piantedosi chiedeva a Meloni una simile decisione che è stata annunciata ieri dal responsabile delle Politiche del mare Nello Musumeci, ex presidente della Regione Sicilia, una delle più interessate all’imponente fenomeno. I numeri dicono bene com’è la situazione attuale: dal 1 gennaio ad oggi le persone sbarcate sono quasi 30mila, contro le 7mila dell’anno scorso e le ottomila del 2021. Solo tra Pasqua e Pasquetta si sono contati 3mila profughi e le barche partite dalla Libia e dalla Tunisia sono state circa 40. L’ammiraglio De Felice, ex comandante della Guardia Costiera, prevede che nei prossimi mesi arriveremo a quota 250mila se non si prenderanno delle misure adeguate.
Il governo italiano, dopo la tragedia di Cutro e il decreto tuttora in Parlamento per la conversione in legge, prova ad utilizzare le procedure più veloci per affrontare l’emergenza: più facile l’identificazione delle persone e la loro espulsione quando non abbiano diritto di chiedere asilo in Italia e quindi debbano essere rimpatriati; più difficile ottenere la protezione internazionale speciale (ampliata dai governi precedenti). Nello stesso tempo procedure più rapide per gestire l’accoglienza di chi arriva, considerando che l’hot spot di Lampedusa è di nuovo allo stremo dovendo ospitare il quadruplo delle persone previste, e siamo circa 1800. Il tentativo è quello di svuotarlo di continuo trasferendo i profughi verso altre regioni: in ognuna delle quali, secondo le intenzioni di Piantedosi, dovrebbe esserci un centro di accoglienza mentre la distribuzione ai comuni non dovrebbe mai superare la quota di 10-15 unità per non provocare reazioni di rigetto nelle popolazioni locali, non sempre disposte all’accoglienza.
È chiaro che lo stato di emergenza è solo il tassello operativo estremo per affrontare la situazione: il governo sta cercando di implementare la propria iniziativa diplomatica per ottenere i risultati «a monte»: ridurre il più possibile le partenze da un Paese come la Tunisia, oggi gravemente in crisi, per la quale l’Italia continua a chiedere all’Europa uno stanziamento finanziario straordinario. Per questo in Tunisia è all’opera una missione promossa dall’Italia con funzionari europei e francesi (e si spera di coinvolgere anche i tedeschi). Alla stessa Europa si chiede un maggiore impegno per la redistribuzione dei profughi che abbiano diritto di rimanere sul suolo dell’Unione: del resto, è noto che moltissimi di loro desiderano, dopo essere sbarcati in Italia, proseguire verso i Paesi del Nord, specialmente verso la Germania.
Meloni punta ad accordi con i Paesi africani per ottenere che collaborino nei rimpatri (cosa che oggi non funziona): si potrebbe ottenere questo risultato sia aumentando i fondi per lo sviluppo di aree sottosviluppate sia riducendo i medesimi in caso di riottosità, ma su questo ancora una volta deve essere trovato un accordo con i partner europei molti dei quali (vedi Finlandia, Olanda e altri Paesi del Nord) sono inclini a pensare che gli sbarchi nel Mediterraneo siano affare dei Paesi del Sud, e non loro. Probabilmente questi paesi, protetti dalle norme del Trattato di Dublino, trascurano, oltre al principio della solidarietà, anche il fatto che c’è una strategia geopolitica che, nell’instabilità nordafricana, spinge alle partenze: mettere in crisi i governi europei attraverso un maxi afflusso di profughi che provochino malcontento nelle varie opinioni pubbliche del Vecchio Continente.
Nel frattempo nelle acque dei nostri mari si continua a morire: negli ultimi giorni ci sono state 38 vittime al largo della Tunisia e di Malta, e il numero di deceduti e dispersi dall’inizio dell’anno ha toccato quota 154.
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