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(Foto di Ansa)
MONDO. La guerra è l’inferno sulla terra, ma c’è un limite anche all’inferno.
E Hamas lo ha oltrepassato senza vergogna, senza un briciolo di umanità, in quel macabro palcoscenico dell’orrore allestito per riconsegnare a Israele i corpi di quattro ostaggi sequestrati il 7 ottobre 2023 – una madre con i suoi due figli piccoli e un anziano. Su ogni feretro i terroristi hanno posto la foto di un ostaggio e un messaggio di propaganda, oltre a munizioni presumibilmente utilizzate dall’Idf. Sullo sfondo la maschera grottesca di Netanyahu trasformato in vampiro e un grande manifesto che accusa Israele per l’uccisione dei quattro a causa dei bombardamenti sulla popolazione di Gaza. Una carnevalata infernale da diffondere in mondovisione. Un’oscenità in cerca di audience.
Non si tratta solamente dell’ennesima violazione del diritto internazionale che imprime il sigillo di terroristi ai seguaci di Hamas. Qui si vuole sottolineare soprattutto la disumanità estrema e schifosa di fronte a una legge morale universale. Il rispetto dei morti della fazione avversa – che si tratti di soldati nemici o di ostaggi – è una consuetudine non scritta sacra, atavica. Ma Hamas non ha avuto nessuna pietà nello strumentalizzare quei poveri resti trasformati in mezzi di propaganda. L’alto commissario per i Diritti umani dell’Onu Volker Turk ha ricordato che anche in guerra qualsiasi consegna dei resti dei defunti deve rispettare il divieto di trattamenti crudeli, inumani o degradanti, garantendo il rispetto della dignità delle vittime e delle loro famiglie. La morte esige il silenzio rispettoso di una condizione irrimediabile e sofferta. Li avrebbero dovuti lasciare in pace quei corpi martoriati, quei poveri resti, prova di tanta sofferenza, almeno di fronte alla morte, e invece così non è stato.
Eppure restituire il corpo di un nemico o di un ostaggio caduto – e quali ostaggi, una madre coi suoi figli e un povero anziano – è un atto che trascende la guerra. È il momento in cui l’odio si arresta davanti alla morte, quando la ferocia del conflitto cede il passo alla pietà. Il corpo di un nemico non è solo un resto inerte: è il simbolo di una vita che ha amato, lottato, sperato. Restituirlo alla sua terra, alla sua famiglia, significa riconoscere che, al di là delle uniformi e delle bandiere, esiste una comune dignità umana. È un gesto che non cancella la guerra, ma ne illumina, per un istante, come una fiammella, l’inutile brutalità. Una consuetudine che affonda le radici nella consapevolezza morale e che data dalla notte dei tempi.
Antigone, che sfida il potere del tiranno Creonte per seppellire il fratello Polinice, è il cuore tragico dell’omonima tragedia di Sofocle. E anche il corpo di Cristo fu lasciato a Maria e alle altre donne per essere avvolto nel sudario e tumulato. Qui invece i becchini del terrore di Hamas hanno allestito una crudele messinscena, trattando quei corpi senza vita come una sorta di insegna luminosa, come un manifesto d’odio, per avvelenare col rancore le loro presunte indifendibili ragioni. Senza nemmeno rendersi conto che tanta crudeltà gli si ritorcerà contro da parte dell’opinione pubblica mondiale.
Non è questa la sede per affrontare la questione palestinese, per setacciare le ragioni e i torti di due popoli in perenne guerra tra loro, sulla reazione sproporzionata del governo di Israele, sulle cause e concause che hanno portato la Striscia di Gaza in un vortice infernale di cemento, vittime e macerie. Ma se i gazawi stanno vivendo una tragedia immane è anche e soprattutto colpa di chi pretende di governarli seminando orrore, violenza e odio, senza il minimo rispetto per la dignità umana. Quella dignità che resiste anche di fronte a un corpo senza vita.
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