Meloni, il no in Europa un vulnus politico

MONDO. La politica italiana discuterà a lungo del no del partito di Giorgia Meloni alla rielezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea.

Non capita infatti tutti i giorni che il partito di un presidente del Consiglio in carica di un Paese fondatore dell’Unione europea voti contro il vertice della Commissione. È uno strappo che solo in parte può essere ammorbidito con dichiarazioni di inalterati rapporti di amicizia. Resta un vulnus politico che è avvenuto per ragioni di politica interna e di politica estera. Il punto è che, una volta acquisiti i voti dei Verdi, Ursula si era messa al riparo dai franchi tiratori della destra del suo partito, il Ppe, contraria a confermare una politica di centrosinistra soprattutto sul tema green. Con i voti dei Verdi in tasca, per von der Leyen quelli di Giorgia Meloni diventavano aggiuntivi, e come tali neanche richiesti: «Se tu mi voti a favore ti dico grazie, ma io non ti devo niente perché sei tu che mi stai offrendo il tuo sostegno». Un discorso che rispondeva in pieno al diktat franco-tedesco imposto alla von der Leyen: nessuna apertura a destra, nessuna maggioranza con Meloni e i suoi Conservatori. Quando Meloni lo ha capito ha pronunciato da ultimo il suo no.

In questo modo la presidente del Consiglio si è risparmiata le critiche di Salvini e ha impedito al suo alleato-concorrente di lucrare politicamente il consenso di tutti quelli che pensano che dall’Europa non vengono altro che divieti, gabelle, complicazioni, «tasse verdi» per dirla con il capo del Carroccio. Ma, votando come Salvini, Meloni si è differenziata dall’altro suo vice, Antonio Tajani, che è oltretutto ministro degli Esteri, e che invece ha dato convintamente il suo appoggio alla compagna di partito Ursula von der Leyen. Non a caso il prudente Tajani ha avvertito: «Chi vota contro la presidente della Commissione in Europa è ininfluente».

La maggioranza politica che regge il governo italiano si è così divisa e si è schierata largamente contro chi a Palais Berlaymont avrà in mano la nostra procedura di infrazione per il deficit e il debito troppo alti, e poi la nostra lentezza nel mantenere i tempi di realizzazione delle opere finanziate con i fondi del Pnrr, e ancora la nostra ritrosia ad applicare le regole europee sulla concorrenza, per esempio nelle concessioni balneari, ecc. Insomma, anche se Giorgia Meloni assicura che l’Italia collaborerà con la Commissione, non sarà facile lavorare insieme. Senza dimenticare che presto sapremo quale poltrona ci sarà assegnata nella nuova Commissione: la vice presidenza esecutiva ci è sfuggita (a favore dei francesi) nel momento in cui Meloni si è astenuta nel voto del Consiglio europeo sulla von der Leyen; ora che quell’astensione si è tramutata in un no vedremo quale incarico ci sarà dato: aspiriamo a portafogli di grande importanza (la Concorrenza, su tutti, ma anche il Mercato interno e l’Industria) ma probabilmente saremo soddisfatti solo in parte.

C’è chi dice che il voto negativo sia stato per Meloni un modo per anticipare la nuova linea di Roma se negli Usa a novembre dovesse vincere Donald Trump. Se così fosse, da ora in poi in Europa si incrinerebbe la fiducia che Palazzo Chigi si è legittimamente guadagnata in due anni e mezzo di politica estera coerente dalla parte dell’Ucraina e contro l’aggressione russa. A Bruxelles i filorussi del gruppo dei «Patrioti» vengono tenuti in disparte e Meloni non si era mai confusa con loro nonostante l’amicizia con Orban; però ora le diffidenze potrebbero tornare a crescere e questo non gioverebbe alla credibilità della «destra di governo» di cui Giorgia Meloni si dichiara orgogliosa capofila.

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