L'Editoriale
Giovedì 02 Gennaio 2025
Mattarella, una lezione per imparare a sperare
ITALIA. La pace, il termine che tutto sovrasta, tanto più che ieri era la sua Giornata. Sergio Mattarella coglie l’attimo che può fuggire, ma che sembra affacciarsi e che in ogni caso va inseguito: «Mai come adesso la pace grida la sua urgenza».
La pace, il termine che tutto sovrasta, tanto più che ieri era la sua Giornata. Sergio Mattarella coglie l’attimo che può fuggire, ma che sembra affacciarsi e che in ogni caso va inseguito: «Mai come adesso la pace grida la sua urgenza», esclama nel discorso di fine 2024, che s’intreccia con il messaggio di ringraziamento inviato a Papa Francesco nell’anno giubilare appena iniziato. Il presidente penetra la crisi di un mondo in subbuglio con la grammatica costituzionale e il garbo di una cultura consensuale in cui tutto, dalla dimensione geopolitica a quella italiana, si tiene in questa triangolazione: pace, speranza, rispetto (elevato dalla Treccani a parola dell’anno scorso). In quel «grida» va rintracciata la forza propulsiva di un concetto, la pace di cui l’Unione europea è storica espressione, intrappolato non in un altrove ma accanto a noi, che reclama la cittadinanza perduta, il dovere di esserci. E quel «mai come adesso» esprime appunto l’urgenza di archiviare la stagione della forza e di un destino crudele che si consuma in Ucraina, Medio Oriente e, più in generale, in 59 conflitti in corso d’opera in 90 Paesi.
In quel «grida» va rintracciata la forza propulsiva di un concetto, la pace di cui l’Unione europea è storica espressione, intrappolato non in un altrove ma accanto a noi, che reclama la cittadinanza perduta, il dovere di esserci
Una spesa globale in armamenti 8 volte superiore a quella per il clima. La domanda, che incrocia la speranza, è se l’anno che inizia (l’anno del ritorno alla Casa Bianca dell’imprevedibile Trump) possa ripristinare gli strumenti della diplomazia, qualcosa che si avvicini al negoziato per invertire il corso della storia: da Kiev a Gaza. Qualche indizio c’è, pur nel sonno della ragione che persiste tossico. Una pace giusta, però, che non si limiti a sterilizzare il conflitto. Mattarella, come sempre, mette i paletti: pace non significa sottomettersi all’aggressore, ma rispetto dei diritti umani, del diritto di ogni popolo alla libertà e alla dignità. Se la speranza, nonostante tutto, deve essere il nostro compagno di viaggio in democrazie in sofferenza, non può però rimanere inerte e inoperosa, perché «la speranza siamo noi, il nostro impegno». Quindi «siamo tutti chiamati ad agire, rifuggendo da egoismo, rassegnazione o indifferenza».
Un flusso circolare
Ecco il cuore della riflessione del Capo dello Stato comporre un destino comune: pace (nell’accezione più completa), speranza e rispetto, fattori essenziali che presidiano la convivenza civile con i loro flussi circolari. Ciascun elemento sorregge l’altro. Quasi una chiamata alla militanza civile, un appello a non disertare la dimensione pubblica: una costante della pedagogia del presidente. Anche in questo decimo discorso di Mattarella si coglie la cultura del «noi», che risalta meglio che in altre occasioni perché qui il presidente parla direttamente a tutti gli italiani: con umanità e concretezza. Interprete delle angosce e delle attese della società, prospettate con una misura capace di stemperare le tensioni, procedendo su un duplice binario: i fondamenti costituzionali e la nozione di Repubblica quale comunità per tutti, che cerca di non lasciare indietro nessuno. L’unità e la tenuta del Paese.
Stile e una ben precisa cultura giuridica che fanno di Mattarella un garante, la cui autorevolezza riscuote consenso e attenzione unanimi, al di sopra delle parti. Senza peraltro tralasciare le cose che non vanno e dando conto del buono che viene dalla società e dalle istituzioni. Il presidente tocca le corde giuste. Non c’è nulla di scontato. Osserviamo i punti chiave del suo discorso, a partire dalla vicinanza al dramma della giornalista Cecilia Sala, detenuta in Iran, e dalla sottolineatura del valore della libera informazione: la piaga delle morti sul lavoro per le quali non servono le parole di sdegno ma i fatti, le liste d’attesa per cui troppi rinunciano a curarsi, i suicidi in carcere dove si vive in condizioni inammissibili, la barbarie di uomini che uccidono donne, il disagio dei giovani che va ascoltato, le distanze fra Nord e Sud.
Padroni del nostro destino
Nella gerarchia di queste derive si può notare, fra altre assenze, il deficit di rispetto che è in cima alle preoccupazioni di Mattarella. E pure qui c’è il rinnovato richiamo all’attivismo individuale, all’impegno in prima persona, che il Capo dello Stato declina nel vero patriottismo. Patriottismo civico potremmo definirlo: quello dei medici del pronto soccorso, ad esempio, del volontariato, degli immigrati che amano il nostro Paese. Ecco la cifra che conta per «essere padroni del nostro destino», un tema ricorrente del pensiero mattarelliano: una comune speranza per condurci con fiducia verso il futuro. Una società fatta di relazioni, una trama di sentimenti. Il retroterra di una società in chiaroscuro che alterna coesione e solidarietà a indici di vitalità insoddisfacenti. A fine gennaio saranno 10 anni dalla prima elezione di Mattarella. Nel frattempo è successo di tutto, dagli choc impensabili alle scosse della proverbiale fantasia creativa italica. Il Paese è cambiato, non la forza tranquilla e persuasiva di quel signore che abita il Colle. C’è chi invoca un giudice a Berlino, quale metafora di riparazione di un torto subito, noi abbiamo una personalità sulla quale tutti, indistintamente, possono contare. E che quest’anno celebrerà con gli italiani gli 80 anni dalla Liberazione, «fondamento della Repubblica e presupposto della Costituzione».
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