Mattarella chiama tutti al dovere

L’invito alla responsabilità rivolto ai partiti proveniente dalla società civile, dal mondo dell’imprenditoria e del lavoro, dai sindaci, dai rappresentanti del terzo settore e delle cooperative e dai tanti corpi intermedi dello Stato non è finito con la fine del governo Draghi. Anzi, quello che ci aspetta dovrebbe esigere una responsabilità ancor più grande. È il senso del messaggio agli italiani del presidente Mattarella dopo lo scioglimento delle Camere. Scioglimento suo malgrado, non ha mancato di dire, ma necessario per l’assenza di una maggioranza credibile, al di là del voto aritmetico. Un governo di tal fatta che fosse andato avanti sarebbe stato soggetto ai veti e alle pressioni del primo segretario che si svegliava al mattino per tendere un’imboscata al premier. Da qui la decisione del capo dello Stato. Tutti a casa.

Ma attenzione, il governo di Draghi ovviamente rimane in piedi per il «disbrigo degli affari correnti». Ma la cosa mai vista nella storia della Repubblica – almeno non in quella recente, forse lo si è vissuto nel Dopoguerra, peraltro con una ben diversa classe politica - è che gli «affari correnti» sono importantissimi, visto il contesto storico in cui ci troviamo. A quel tempo c’era da costruire un Paese oggi c’è da ricostruirlo, in un’epoca di transizione come la nostra. Il presidente ha voluto che tutti gli italiani se ne rendessero conto, a futura memoria. È stato lui stesso a stilare la lista delle priorità e ricordare agli elettori in che mondo viviamo, visto che i partiti, come ha ricordato ieri il politologo Damiano Palano su questo giornale, «vivono in una bolla». C’è innanzitutto una guerra alle porte di casa, con tutte le sue conseguenze sul piano umanitario, un’inflazione che divora specialmente i redditi delle famiglie meno agiate, una seconda tranche del Piano nazionale di ripresa e resilienza che in sostanza significa 19 miliardi di fondi a disposizione del Paese da investire in grandi opere, infrastrutture, nuovi mezzi per il trasporto pubblico, lampioni per illuminare le periferie, aree destinate al verde, impianti all’avanguardia e in linea con la transizione ecologica tanto auspicata.

Altrimenti i sindaci in autunno dovranno decidere se completare i progetti già avviati con la prima tranche distraendo le risorse a disposizione nel bilancio o continuare a pagare il gasolio per riscaldare ospedali e istituti scolastici. Naturalmente tra un progetto e il gasolio sceglieranno il gasolio. Significa che l’Italia si ferma, non è più in grado di guardare al suo futuro, può solo pensare di continuare a sopravvivere, gestendo appunto «gli affari correnti». Ma l’attuazione dei tempi previsti per ottenere quei fondi è complicata e richiede tempi stringenti. Sono atti urgenti, gli unici possibili a un Consiglio dei ministri di transizione, ma estremamente necessari. Avremo così a che fare con un «governo per gli affari correnti del Presidente» guidato da Mario Draghi. Un Draghi desideroso di volgere la prua altrove, verso altri lidi, forse occupando il posto lasciato vacante alla Nato.

Non sarà però possibile da parte di questo governo proporre disegni di legge o provvedere alla legislazione di secondo livello (i decreti legislativi che attuano la legge cornice) e dunque portare a termine riforme più che mai necessarie come quella della giustizia o del fisco. Nessun indirizzo politico, nessuna capacità programmatica è ormai concessa a Draghi, il premier degli affari ordinari. Dunque bisogna far presto perché serve un governo con pieni poteri. Il tempo presente, per dirla con Mattarella «non consente pause». Vanno rispettate scadenze serratissime. Il problema è che i partiti sono in campagna elettorale, alla ricerca spasmodica di consenso. La classe politica è impegnata nelle promesse. Sapranno i partiti essere all’altezza di «un contributo costruttivo nell’interesse superiore dell’Italia»? Finora la risposta è stata no.

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