L'Editoriale
Martedì 09 Maggio 2023
Materie prime e nazionalismi
MONDO. Per costruire un’automobile elettrica - di quelle che si vedono sempre più spesso sulle strade delle nostre città - è necessaria, in media, sei volte la quantità di minerali utilizzati per un motore a combustione interna.
Servono litio, nichel, cobalto e grafite per costruire e assemblare le batterie, per esempio. Se qualcuno ritiene che si tratti di una curiosità per soli appassionati di tecnologia, farebbe meglio a ripensarci. Con questo semplice dato statistico elaborato dall’Agenzia Internazionale per l’Energia, si spiega tanta parte delle difficoltà che le Case automobilistiche europee stanno incontrando nella sfida con la concorrenza asiatica e americana, così come si comprende perché i prezzi dei veicoli elettrici siano decisamente più elevati di quelli tradizionali. Secondo alcuni calcoli riportati dal Sole 24 Ore, le materie prime per le auto tradizionali si attestano in media a 1.800 dollari per veicolo, in crescita del 25% rispetto al 2020, mentre le materie prime delle auto elettriche arrivano a quota 6.800 dollari, in aumento del 220% dal 2020. I listini dei concessionari non fanno che registrare tali tendenze. Alle quali presto se ne potrebbe aggiungere un’altra, anch’essa «rialzista» sui prezzi, il «nazionalismo delle materie prime».
Il caso più recente si è registrato a fine aprile. Il presidente del Cile, Gabriel Boric, ha annunciato di voler portare sotto il controllo statale l’estrazione e la produzione di litio, cogliendo l’occasione dei motivi di salvaguardia ambientale. Il Paese sudamericano detiene le maggiori riserve del pianeta di questo minerale ricercatissimo per le batterie, non solo delle auto elettriche. Secondo il Financial Times, la riforma imporrà ai principali estrattori del cosiddetto «oro bianco», l’azienda cilena SQM e la statunitense Albemarle, di accettare una partecipazione pubblica nelle concessioni esistenti che scadono rispettivamente nel 2030 e 2043. Non sarà una nazionalizzazione tout court, ma la direzione di marcia è evidente. D’altronde, lo scorso luglio, sempre il governo cileno aveva imposto nuove royalties per le società che estraggono ogni anno più di 50.000 tonnellate di rame. Per rimanere a quanto accade in America Latina, un anno fa il Messico aveva nazionalizzato i depositi di litio, e due mesi fa il presidente Andrés Manuel López Obrador ha firmato un decreto che assegna la responsabilità delle riserve dello stesso minerale al ministero dell’Energia.
Il trend tuttavia è globale. In Africa, lo Zimbabwe ha messo al bando l’esportazione di litio non processato. Secondo l’agenzia di stampa Reuters, che ha tentato di «mappare» questa ondata di «nazionalismo delle materie prime», quello di Harare è un tentativo – non si sa quanto efficace – di fermare quei minatori improvvisati che scavano e contrabbandano il minerale al di là dei confini nazionali.
Né c’è soltanto il litio al centro della nuova ondata protezionista sulle materie prime critiche. Nelle scorse settimane, in Myanmar, nel Sud-Est asiatico, la milizia armata della minoranza Wa ha fatto sapere che sospenderà ogni attività nelle miniere situate nell’area che controlla dallo scorso agosto. Il solo annuncio è stato sufficiente a innescare un rialzo a due cifre delle quotazioni dello stagno sia al London Metal Exchange che in Cina, visto che il colosso asiatico lo scorso anno ha importato il 77% del minerale di stagno proprio dal Myanmar. Parliamo di un materiale molto utilizzato nel settore dell’elettronica e in particolare nella produzione di microchip, un minerale su cui si erano accesi i riflettori già alla fine dello scorso anno, quando il presidente indonesiano, Joko Widodo, aveva ipotizzato uno stop all’export, decidendo poi di limitarlo – si fa per dire - alla sola bauxite (la roccia madre dell’alluminio) a partire dalla prossima estate.
Una sequenza di episodi che aggiunge tensione a un mercato peraltro già caratterizzato da significative concentrazioni a livello globale, con la Cina che domina per esempio nella raffinazione del litio e nella produzione di batterie. Uno scenario sul quale, come europei, faremmo bene a vigilare mentre imbocchiamo con sicumera la strada della transizione ecologica che, in assenza di precauzioni, potrebbe condurci a una nuova situazione di dipendenza altamente rischiosa.
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