L'Editoriale
Giovedì 20 Dicembre 2018
Marcia indietro
sperando nel voto
Al banco del governo in Senato ieri alle 13 accanto al presidente del Consiglio Conte erano seduti il ministro dell’Economia Tria e quello degli Esteri Moavero-Milanesi. I due vicepremier, veri padroni della macchina, erano assenti: Matteo Salvini e Luigi Di Maio non hanno partecipato alla rappresentazione scenica in cui Giuseppe Conte ha dovuto descrivere la battaglia con l’Europa come una vittoria dell’Italia anche se tutti hanno capito che si è trattato di una marcia indietro. Se Conte dunque ha ricevuto dai capipartito l’onore di condurre in prima persona la trattativa con Juncker, Moscovici e Dombrovskis, si è dovuto anche sobbarcare da solo l’onere di «mettere la faccia» in Parlamento di fronte ad un’opposizione scatenata e a una maggioranza che ha faticato a nascondere la delusione.
L’assenza dei due capi partito ha disorientato innanzitutto loro, i parlamentari pentastellati e leghisti assai poco confortati dalla rassicurazione del presidente del Consiglio secondo cui sono state mantenute tutte le promesse fatte all’elettorato, a cominciare dal reddito di cittadinanza (sceso da 9 a 7,1 miliardi, compresi i fondi per riformare i centri per l’impiego) e dalla riforma pensionistica (da 6,7 a 4,7miliardi).
Conte ha elencato le misure imposte da Bruxelles: dieci miliardi in meno di spesa, altri due miliardi «congelati» nel caso i conti facessero comunque cilecca, più il mantenimento delle clausole di salvaguardia sull’Iva per il 2020 e per il 2021, con un deficit portato dal 2,4 al 2% (lo 0,4 non si conta nemmeno, è stato un puro espediente mediatico) e una previsione di crescita del Pil ridimensionata all’1% (dall’1,5 del governo cui non credeva nessun organismo tecnico nazionale e internazionale). E oltretutto, Dombrovskis ha anche detto che la Commissione «per ora» non avvia la proceduta d’infrazione e che una decisione definitiva sarà presa quando si avrà la certezza che tutte le misure saranno effettivamente prese. Insomma a Bruxelles non si fidano, e prima di mettere nero su bianco il via libera alla legge di Bilancio 2019 aspettano di vedere l’approvazione definitiva da parte del Parlamento. Che, detto per inciso, voterà in quattro e quattr’otto col voto di fiducia un testo che nemmeno ha il tempo di leggere e che è stato scritto dai tecnici del Tesoro e della Commissione europea nelle stanze di Palais Berlaymont a Bruxelles.
Questa è la realtà dei fatti, al di fuori di ogni propaganda e tifoseria. Se il governo giallo-verde di Roma voleva dimostrare che si poteva ottenere una facile vittoria sfidando una Commissione in scadenza e prima della (attesa) rivoluzione sovranista alle elezioni di maggio, non è riuscita nel proprio intento.
Se Salvini e Di Maio si volevano mettere alla testa del fronte che si «ribella» all’Europa «dei burocrati», hanno dovuto segnare il passo. Viceversa la Commissione ha voluto impartirci una lezione che sarebbe stata anche più severa se non ci fossero state le difficoltà della Francia e i problemi della Brexit, tutti fronti aperti che hanno consigliato prudenza e consentito a Juncker e Moscovici di frenare i falchi come Dombrovskis e Rutte: se fosse stato per i Paesi del Nord Europa, avremmo subito senz’altro una procedura di infrazione e oggi combatteremmo con lo spread impazzito, la Borsa a picco e le banche in difficoltà. Ma anche a Roma hanno lavorato le «colombe» a favore del compromesso: da Mattarella allo stesso Conte ad un Tria redivivo, si deve a loro se alla fine i due partiti hanno dovuto rinfoderare le spade e accettare il compromesso. In attesa naturalmente delle elezioni europee: nessuno può escludere che le urne in primavera possano rovesciare gli attuali equilibri in senso favorevole ai «populisti» e «sovranisti».
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