Malata sì ma la sanità che cura esiste

L’ANALISI. In un Paese in perenne campagna elettorale, quello della sanità non può che essere uno dei temi maggiormente al centro del dibattito politico.

Che poi definirlo «dibattito» è già un errore, perché quello a cui assistiamo quotidianamente in televisione, sui giornali, in rete o in qualunque altro modo oggi si faccia informazione, non ha nulla a che vedere con le regole elementari del confronto, basato sull’analisi oggettiva di ciò che accade realmente e sulla discussione di proposte serie e soprattutto praticabili. Oggi si litiga e basta, attestandosi su posizioni preconcette e faziose, e sostenendo tesi spesso indifendibili. Il rischio, soprattutto in sanità, è quello di cavalcare insidiose derive populiste, che proprio perché tali, trovano ampia condivisione tra la gente insoddisfatta, favorendo reazioni potenzialmente pericolose.

Tra gli esempi più eclatanti c’è la violenza, fisica o verbale, che sempre più spesso ha come destinatari medici, infermieri e operatori sanitari, in particolare quelli in servizio nei Pronto soccorso. I dati parlano chiaro, visto che ogni anno, in Italia, le aggressioni o le minacce accertate ai danni dei lavoratori del settore oscillano attorno ai 2mila casi, con una media di almeno 5 al giorno. Quello di Barbara Capovani, la psichiatra morta il 23 aprile scorso dopo essere stata aggredita da un paziente due giorni prima, è senza dubbio il punto più grave di un malessere che certo non va trascurato, ma che in maniera altrettanto netta non deve essere alimentato con informazioni scorrette. Altrimenti, ben che vada, si finisce con l’avvalorare l’esistenza di presunti diritti negati, con conseguenze non sempre immaginabili.

Che la sanità sia malata è un dato di fatto, un «leit motiv» talmente ricorrente da venire quasi a noia, ma bisogna prestare grande attenzione a non confondere i piani, a non fare di ogni erba un fascio. Perché la sanità che vorremmo avere e che non c’è – quella senza liste d’attesa «chilometriche», con una Medicina territoriale fatta di ambulatori di medici di famiglia realmente operativi sul territorio, Case di comunità zeppe di servizi (e non di stanze vuote) e una Continuità assistenziale degna di questo nome - non deve essere fraintesa con quella che c’è, e di cui quotidianamente - nella sola Bergamasca, ad esempio - fruiscono migliaia di persone, con un altissimo grado di soddisfazione, proprio perché la qualità delle prestazioni è mediamente molto alta.

Le numerose lettere che pubblichiamo regolarmente ne sono una dimostrazione reale, così come le storie di buona sanità che da oggi vi racconteremo nelle pagine di cronaca. Perché le visite, gli esami diagnostici e gli interventi di cui tutti giorni moltissimi di noi beneficiano sono garantiti da migliaia di operatori sanitari a suon di sacrifici, verso sé stessi e verso la propria famiglia, proprio perché quella sanità che tutti noi vorremmo avere non l’hanno nemmeno loro. Come la nostra, anche la sanità dei loro sogni vorrebbe avere un maggior numero di colleghi in corsia (che oggi mancano e nemmeno si trovano) per consentire turni meno massacranti, «straordinari» più contenuti, e la possibilità di effettuare un numero superiore di prestazioni in un arco di tempo più ampio. E magari con un riconoscimento economico adeguato. Anche se con indosso il camice, gli operatori sanitari sono né più né meno «vittime» dello stesso sistema che il malato insoddisfatto mette al centro delle proprie lamentele. A tutti loro deve dunque andare il nostro rispetto e il nostro apprezzamento, al di là che il mondo combatta contro una terribile pandemia o che, al contrario, goda di miglior fortune.

Il sistema che oggi alimenta mille polemiche (alcune delle quali, va detto per onestà intellettuale, inventate ad arte non certo per favorire una crescita qualitativa) non è stato ridotto nelle condizioni in cui si trova dai medici ospedalieri o dal personale infermieristico, ma da una classe politica (da destra a sinistra, passando per il centro) miope e impreparata, che nel corso degli ultimi trent’anni almeno è stata incapace di adottare provvedimenti in grado di rafforzarlo, riuscendo invece a indebolirlo legislatura dopo legislatura. Le piccole logiche delle piccole botteghe della piccola politica, ad esempio, non hanno mai saputo affrontare e risolvere (se non tardivamente e per un numero minimo di casi) il problema della chiusura e della riconversione dei piccoli ospedali, volutamente intesi più come bacini elettorali che come reali presidi a tutela della nostra salute. Perché la discussione, anziché essere politica, è «partitica», e prima ancora di occuparsi dei problemi ci si occupa della spartizione dei centri di potere (direzioni generali di Ats e Asst in primis) in base alle tessere di partito.

Nulla in contrario se si scegliesse anche in base alle capacità, ma spesso così non è. I problemi sul tappeto sono gli stessi da tempo - personale medico e infermieristico insufficiente e difficile da reperire («grazie» anche al sistema universitario che sul fronte sembra fare orecchie da mercante) e una Medicina territoriale tutta da ripensare e da ricostruire, ma all’orizzonte di operativo si vede gran poco. Con i soldi del Pnrr il sistema si è infarcito soltanto di infrastrutture (desolatamente vuote per mancanza di idee e personale) e di «eterei» progetti innovativi, come quello sulla digitalizzazione (ma negli uffici regna sovrana la carta, oltre ad una spaventosa ignoranza digitale) o sulla telemedicina, sparsa qua e là sui territori, ma ancora priva di una piattaforma nazionale uniforme. Senza contare che i tre miliardi recentemente stanziati per la Sanità serviranno esclusivamente per adeguare i contratti nel «pubblico», ma non consentiranno di fare una sola ecografia in più. Se poi ci mettiamo una consistente fetta di pazienti sempre più impazienti che affollano colpevolmente i Pronto soccorso (solo parzialmente giustificati dalla carenza della medicina territoriale), ci aggiungiamo un 18% di chi prenota visite ed esami e poi né si presenta né disdice per tempo (ma si lamenta delle attese), e condiamo il tutto con una spruzzatina di cultura medica via web, il gioco è fatto, e la vulgata popolare è bella che pronta: la sanità è ormai allo sfascio.

È davvero così? Non proprio: sta soffrendo, ma non è in coma irreversibile, e in Lombardia - checché se ne dica - sta molto meglio che altrove. Il problema è che il piano su cui «scorre» ogni giorno è fortemente inclinato e il rischio che scivoli irreversibilmente a valle è dietro l’angolo. Il tempo è poco, ma lo spazio per muoversi c’è ancora, a patto che Regione Lombardia rompa gli indugi e affronti i problemi di gestione con seria determinazione, mettendo all’angolo tutti quei soggetti che oggi zavorrano il sistema. Visto che se lo può permettere, il Pirellone si dia una mossa: da troppo tempo naviga a vista, ma è giunta l’ora di avere una guida sicura verso un porto riparato. Soluzioni innovative ci sono, basta avere il coraggio di applicarle.

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