Magistrati e politica, i confini stabiliti

GIUSTIZIA. La disputa, scoppiata dopo l’ordinanza della magistrata, Iolanda Apostolico, sulla liberazione di un immigrato trattenuto in cattività, non accenna a spegnersi.

Al contrario, anche perché le forze di governo continuano ad attaccare il provvedimento, arrivando ad una sorta di «caccia alle streghe» mediante i video messi in circolazione da Salvini. Il tono della vicenda rischia di aggravarsi, poiché un altro magistrato di Catania ha ritenuto inapplicabile parte del decreto legge con il quale il governo, dopo la strage di Cutro, ha emanato norme fortemente restrittive in tema di migranti. Lo scontro sta assumendo toni allarmanti, perché le implicazioni che ne stanno derivando sono particolarmente insidiose. Il ministro e vice presidente del Consiglio pigia il piede sull’acceleratore della polemica, dimenticando che i magistrati sono tenuti a rispettare le leggi ed hanno la facoltà di interpretarne i contenuti. Nel caso di specie la magistrata ha operato anche sulla base di una sentenza della Cassazione, a giudizio della quale «la normativa interna incompatibile con quella dell’Ue va disapplicata dal giudice nazionale». Sul caso in questione il ministro della Giustizia Nordio ha affermato che la giudice poteva prendere il provvedimento ma non doveva farlo. Si immagina, per ragioni di opportunità. In effetti, la sua posizione è pienamente condivisibile. La magistrata avrebbe dovuto - per cautelare, prima ancora che sé stessa, il ruolo della giurisdizione nel suo insieme - chiedere di non vedersi affidato il compito di giudicare la questione. In una democrazia ordinata i magistrati, portatori di un potere autonomo, garantito dalla Costituzione, non soltanto devono essere imparziali, ma anche apparire tali innanzi alla pubblica opinione.

Per cogliere il nesso profondo dei rapporti tra politica e magistratura è forse opportuno ricapitolarne l’evoluzione. Nello Stato liberale la magistratura era quasi totalmente condizionata dal potere politico. Nel ventennio fascista si verificò un progressivo asservimento dei magistrati agli indirizzi della dittatura. Il vero momento di rottura - sul piano dell’ordinamento, ma non meno per ciò che riguardò l’assetto interno della magistratura - è rinvenibile nell’arco di tempo che va dal 1946 al 1948, nel quale la prospettiva dell’indipendenza della magistratura da mera opzione formale divenne punto cruciale di un percorso di profonda revisione della funzione della giustizia e del suo ordinamento in uno Stato democratico. I cambiamenti effettivi hanno avuto vicende lunghe e sovente tormentate, ma non per questo poco influenti sulle dinamiche tra poteri e sul terreno della certezza del diritto. Lo smottamento avvenne, come noto, con le inchieste del 1992 di Mani pulite. Gli interventi della magistratura milanese sortirono l’effetto (forse nemmeno previsto dai protagonisti) di smantellare un equilibrio tra le forze politiche durato oltre quattro decenni. Dopo quel traumatico momento si è iniziato a riflettere sui rapporti che intercorrono tra magistrati e sistemi politici, e più in generale tra giustizia e potere. In particolare sulla circostanza che l’estensione dei diritti civili a nuovi soggetti sempre più spesso chiede ai magistrati di esprimersi su questioni di forte attualità politica.

Un giudizio prezioso, e tuttora assolutamente idoneo a comprendere come si possano contemperare il ruolo e l’azione dei due poteri, fu espresso da Salvatore Lener su «La Civiltà Cattolica» del 17 maggio 1947, mentre si stava costruendo il testo della Costituzione. Egli affermava testualmente: «L’imparzialità del giudice non è soltanto una condizione per la migliore amministrazione della giustizia, non è una mera qualità dell’organo giurisdizionale; ma è l’elemento che definisce semplicemente la stessa natura delle funzione giurisdizionale nei confronti delle altre funzioni sovrane e, particolarmente, di quella esecutiva».

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