L'Editoriale
Lunedì 10 Giugno 2019
Magistrati delatori
Una riforma pericolosa
La brutta vicenda che ha travolto il Consiglio superiore della magistratura, con le sue derive correntizie e il conflitto per la nomina del nuovo procuratore di Roma, ha messo in luce un mondo che deborda dalle regole di una sana istituzione. Il governo ha ora allo studio un pacchetto di riforme, disegnate dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (5 Stelle), che prevede tra l’altro di applicare alle toghe il sistema delle denunce anonime, all’interno di un cambiamento complessivo del sistema per far sì che «la meritocrazia sia centrale a partire dalla quotidianità» come afferma il ministro, il cui ufficio legislativo sta lavorando a una procedura per i comportamenti impropri o scorretti dei magistrati, una piattaforma digitale sulla quale registrare le segnalazioni in forma criptata e anonima.
Ma segnalazioni riguardo a quali fatti? Cattiva gestione degli uffici, ritardi, irregolarità, assenze ingiustificate, disordine gestionale, conflitti di interesse o incompatibilità. Se, dopo le verifiche, la segnalazione risultasse vera, inciderà sulla carriera del magistrato oggetto di denuncia.
Ma questo strumento rischia di diventare una forma di delazione: proprio perché garantisce l’anonimato, potrebbe essere utilizzato per consumare piccole vendette personali. Così alla terza segnalazione non vera, scatta una sanzione contro il denunciante. Secondo il ministro Bonafede questo sistema potrebbe valere anche nei confronti del Csm. Una legge analoga c’è già per gli uffici pubblici e le aziende private, approvata nel novembre 2017 da Pd e 5 Stelle. Ma nel caso della magistratura, la delazione diventerebbe a tutti gli effetti parte integrante di un ordine dello Stato. È un sistema che sa di sconfitta delle gerarchie nelle Procure, che andrebbero semmai più responsabilizzate, e può generare conflitti infiniti e insanabili.
Ma ha un precedente da parte del governo. Nella legge cosiddetta «Spazzacorrotti», approvata in via definitiva il 18 dicembre scorso dal Parlamento, è stata introdotta la figura dell’agente sotto copertura, un uomo delle forze dell’ordine che opera da infiltrato per scovare i casi di corruzione, figura che nessuno sa come dovrebbe agire visto che i casi di corruzione non coinvolgono organizzazioni criminali ma singoli individui, con annessi pericoli di condizioni che possono apparire non ben definite, zone grigie ed opache, con elevato rischio di fraintendimenti e strumentalizzazioni.
Il governo ha fin qui privilegiato una linea giustizialista, mentre la politica dovrebbe rioccupare i suoi spazi, con le competenze e i controlli che dovrebbero esserle propri. Nel luglio scorso l’esecutivo ha fermato la riforma delle intercettazioni approvata nella precedente legislatura, che metteva un freno alla pubblicazione indiscriminata sui giornali di registrazioni telefoniche che non avessero alcuna rilevanza penale, evitando di pubblicizzare nomi di persone non coinvolte nelle inchieste. L’intenzione è di riscrivere completamente le norme. Stop anche alla riforma dell’ordinamento penitenziario varata dal governo Gentiloni, cancellando in particolare la facilitazione all’accesso a misure alternative alla carcerazione, che quando ben gestite hanno assicurato la rieducazione dei detenuti, come chiede la Costituzione.
Nella legge anticorruzione è stata inserita anche la riforma della prescrizione: prevede l’interruzione dei termini dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di assoluzione che di condanna. Rischia di lasciare l’imputato in balìa dei tribunali per anni. Servirebbero cambiamenti più radicali per garantire processi più celeri e più giusti. Forse saranno inseriti nella riforma del processo penale, annunciata per fine 2018. Restiamo in attesa.
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