M5S prigioniero
L’ultimo azzardo

Di Maio può star sereno. Salvini non ha nessuna intenzione di scaricarlo. Forse, però, il capo del M5S avrebbe di che preoccuparsi proprio da queste rassicurazioni. È ancora fresco nella nostra memoria il precedente assai poco augurante di Matteo Renzi che esibiva la mano tesa a Enrico Letta solo per avere la strada libera di spodestarlo da Palazzo Chigi. Sospetti di doppio-giochismo a parte, non s’è mai visto un partito che riscuote un successo elettorale travolgente (parliamo del voto in Abruzzo) per di più a scapito del partner di governo e non corra a monetizzare il peso politico acquisito. Di Maio non si faccia comunque troppe illusioni. Salvini non è il buon Samaritano. Aspetta solo di fare il filotto nelle prossime, imminenti elezioni (Sardegna, Basilicata, europee) e poi non mancherà di passere all’incasso.

In casa grillina del resto, nessuno si fa troppe illusioni sull’arrendevolezza dell’alleato. Formalmente hanno preso atto con sollievo delle sue profferte di lealtà, ma non per questo sono stati con le mani in mano. Hanno prontamente abbozzato le mosse utili a scongiurare il peggio. Il guaio è che sia il buon Giggino che il Movimento non hanno grandi spazi d’azione. Il numero uno dei Cinquestelle sa che una crisi di governo equivarrebbe a un suo pensionamento.

Da parte sua, il M5S è finito prigioniero di se stesso. Ha scommesso tutto sulla protesta. Adesso, rischia tutto nel doversi riciclare come forza di governo. Per fare il pieno dello scontento e del rancore diffusi si è fatto grancassa degli umori del Paese. Ha attaccato frontalmente élite e classi dirigenti. Ha decretato che uno vale uno, che gli eletti devono essere cittadini qualunque prestati alla politica. Entrati nella stanza dei bottoni, hanno scoperto invece che l’incompetenza non è una virtù, che non disporre di un radicamento nel territorio e di un sistema di alleanze li condanna a vivere sotto schiaffo di un alleato padrone del campo, esposti per di più al mutevole vento elettorale.

Per non sprofondare, Di Maio ha avanzato una sua ricetta: trasformare il movimento in partito, dotarlo di una vera organizzazione con comitato centrale, comitati regionali e la creazione di «referenti tematici». In parole povere, punta alla creazione di un apparato di partito. Non si rende conto che il cambio della forma organizzativa non è mai neutrale. Nel suo caso, prefigura l’abbandono del profilo di forza antisistema su cui ha costruito la fortuna elettorale.

Il guaio peggiore dei Cinquestelle viene comunque dal non avere un’idea di società cui applicarsi. Il calderone di rivendicazioni accumulato in un decennio di mobilitazione delle piazze e del web ha incorporato le richieste e le suggestioni più diverse, difficili da soddisfare una volta al governo.

L’espediente di sfuggire a ogni definizione dichiarandosi né di destra né di sinistra ha offerto loro il vantaggio di tenersi le mani libere ma li ha esposti anche al rischio di accusare paurosi sbandamenti: oggi schierati con il macroniano En Marche, domani con i suoi nemici (i gillet gialli), un giorno alla corte di Maduro, il giorno dopo in fuga dall’affamatore del popolo venezuelano, sempre pronti ad annunciare successi (come l’abolizione della povertà o l’avvenuta liberazione dal giogo di Bruxelles) e sempre disposti a consumare poi precipitose correzioni di rotta o imbarazzanti retromarce (si vedano la presa d’atto della frenata economica, la Finanziaria riscritta dall’euroburocrazia, l’abbandono del veto alla Tap e all’Ilva di Taranto). L’apice di questo modo di procedere erratico che rischia di scavare sotto i loro piedi un baratro è stato raggiunto dalla decisione di demandare agli iscritti della piattaforma Rousseau la decisione di acconsentire o meno all’autorizzazione a procedere per l’alleato Salvini. Non volendo assumersi la responsabilità, rifiutandola, di infrangere uno dei cardini della loro missione politica, hanno girato la patata bollente alla base, non valutando che in tal modo hanno aperto con le loro stesse mani la botola in cui possono rovinare.

Un semplice contratto di governo può bastare per costruire una maggioranza. È troppo poco, però, per consertirle poi (verificheremo oggi) di reggere un’intera legislatura.

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