L’urgente bisogno
di un’igiene delle parole

In un’intervista pubblicata su uno dei maggiori quotidiani italiani il ministro dell’Interno ha affermato: «È come se nel gesto di odio si riassumesse una nuova “normalità”, una declinazione come un’altra della cultura imperante dell’outing». Parole lucide, che colpiscono per il preoccupante richiamo alla «normalità» delle dichiarazioni deliranti che imperversano nel mondo del web. I bersagli sono tanti: in prima fila ebrei, omosessuali, persone di colore, donne che non accettano di sentirsi oggetto nelle mani di uomini violenti.

O anche, semplicemente, avversari politici che hanno opinioni diverse. In questa delirante ascesa dell’insulto, della minaccia, della rabbia inconsulta si segnalano le formazioni politicamente vicine agli ambienti neofascisti e neonazisti, i quali sembrano sentirsi legittimati a spargere il seme della discordia, della ferocia verbale, che incita (e spesso induce realmente) alla violenza fisica. La frequenza con la quale tali atteggiamenti – il più delle volte coperti da un vile anonimato – si riproducono non può non costituire una reale preoccupazione per chi governa e ha il dovere di impedire che tali fenomeni si espandano ancor più, affinché il clima dell’odio non ci faccia precipitare in un passato che l’Italia ha vissuto durante la dittatura fascista.

È significativo che un alto monito contro la «cultura» dell’odio provenga da una donna delle istituzioni. Luciana Lamorgese, come è noto, non appartiene al ceto politico. Professionalmente è una «servitrice dello Stato», chiamata a ricoprire un ruolo politico-istituzionale di enorme delicatezza e difficoltà. Nel suo intervento ha giustamente sottolineato che sembra essersi consumato il «definitivo divorzio tra significante e significato nell’uso delle parole», che, l’argomento è antico, possono essere più pesanti delle pietre. Il terreno nel quale dilaga la triste piaga della violenza verbale, è quello dei social. Luogo teoricamente frutto di espansione democratica del diritto di opinione e di espressione del pensiero.

Al contrario, la realtà dimostra che esso è divenuto un’immensa prateria nella quale scorrazza, come una mandria di bufali inferociti, la peggiore feccia della società. Un far west nel quale sembra debbano inevitabilmente prevalere coloro che urlano di più, con argomenti violenti e denigratori nei confronti di chi viene ritenuto «altro», «diverso», «contro». Dentro questo fenomeno sembra annidarsi un «male oscuro», che conduce al tramonto della ragione, alla perdita di senso, al trionfo dell’impulso primordiale. Un orizzonte nel quale non esiste il confronto, ma soltanto la logica della sopraffazione, la quale è, per definizione, tutt’altro che «logica». Il declino delle forme del dialogo pubblico riguarda ormai l’intero panorama della società. In primo luogo, per incidenza sul tessuto civile, la politica. Non a caso – per fare soltanto un esempio – il precedente ministro dell’Interno – caratterizza le sue modalità di comunicazione social per una costante aggressività, orchestrata da un gruppo di collaboratori autodefinitosi emblematicamente «la Bestia».

Segnali non meno preoccupanti si possono carpire ogni giorno nei talk show, diventati una palestra dell’urlo e del rutto ideologico. A scapito del dialogo comune, del modo di parlarsi in pubblico e perfino nel chiuso delle proprie case. Uno scadimento preoccupante, perché – per ricordare la memorabile battuta di un famoso film – «chi parla male, pensa male». Mezzo secolo fa Umberto Eco delineava magistralmente i fenomeni dell’epoca, dipingendo la «fenomenologia di Mike Bongiorno». Oggi siamo ridotti a fare i conti con la «fenomenologia di Achille Lauro» (il cantante non l’ex sindaco di Napoli). Anche su questo il ministro Lamorgese dà un esempio di pacatezza e di cultura civile, affermando che c’è un «urgente bisogno di una igiene delle parole e dei comportamenti». Nulla di più vero.

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