L’uomo di Davos e i suoi tormenti

Davos è una cittadina di poco più 10mila anime, incastonata sulle Alpi svizzere, che passerà alla storia per aver fatto da sfondo al romanzo «La montagna incantata» di Thomas Mann, pubblicato nel 1924. La stessa località sale ciclicamente agli onori della cronaca perché ospita un appuntamento chiamato «World economic forum», o Forum economico mondiale.

Dal 1971, per una settimana all’anno, è qui che convergono leader aziendali, banchieri, economisti ed esponenti delle istituzioni per dialogare tra loro e proporre soluzioni ai problemi intravisti all’orizzonte. Quest’anno numerosi osservatori hanno notato un’atmosfera non troppo festosa nell’esclusiva cittadina svizzera. «La geopolitica minaccia di distruggere il mondo creato da Davos», è il titolo tranchant di un’analisi pubblicata sul Financial Times da Gideon Rachman. Svolgimento: «La paura che attanaglia il Forum è che un lungo periodo di pace, prosperità e integrazione potrebbe essere vicino alla fine». Lo stesso quotidiano, tra i più letti nella comunità finanziaria mondiale, ha sottolineato le defezioni dei principali leader dei Governi del G7. Cosa sta succedendo dunque al Forum? Provare a rispondere a questa domanda, per quanto possa sembrare strano a chi è alle prese con domande e sfide quotidiane di ben altro genere, è di un qualche interesse per tutti noi.

Innanzitutto perché sulla scelta di non partecipare al Forum hanno pesato con ogni probabilità ragioni e pressioni di tipo «democratico». Il presidente degli Stati Uniti Biden per esempio, in vista delle elezioni presidenziali del 2024, vuole essere visto come vicino all’americano medio piuttosto che ai grandi Ceo delle multinazionali a stelle e strisce. Un ragionamento simile, sempre secondo Rachman, potrebbe averlo compiuto il presidente francese Macron, in passato difensore della globalizzazione ma oggi alle prese in patria con una spinosa riforma delle pensioni. Possibile, anche se non ci sono prese di posizioni pubbliche ufficiali in proposito, che anche la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni abbia scelto di preservare la propria immagine di «underdog», cioè di «sfavorita» che per affermarsi deve sconvolgere tutti i pronostici - come si è definita lei stessa - piuttosto che farsi fotografare al fianco dei «favoriti» della globalizzazione. Non solo: proprio mentre Davos era in corso, Meloni e Macron hanno avuto un colloquio telefonico in cui hanno discusso di guerra in Ucraina, sostegno pubblico alle imprese europee e contrasto all’immigrazione illegale, come a indicare una fattiva alternativa a certi verbosi panel alpini.

Da un punto di vista più generale, si può dire che «l’Uomo di Davos» sta attraversando una crisi d’identità. L’espressione «Davos man» fu coniata nel 2004 dal politologo americano Samuel Huntington per descrivere una nuova classe di «predicatori laici» della globalizzazione, i quali desideravano che i confini nazionali scomparissero e che la logica della politica cedesse il passo sempre e comunque a quella del mercato. Una caricatura, ovvio, ma comunque utile a identificare un eccesso di ottimismo con il quale una parte della nostra classe dirigente ha giudicato il processo storico che chiamiamo «globalizzazione». Eccesso di ottimismo che si è incrinato con la crisi finanziaria del 2008, e poi definitivamente evaporato con la pandemia del 2020 e la guerra alle porte dell’Europa nel 2022. L’integrazione mondiale degli scambi e delle comunicazioni ha avuto finora conseguenze materiali e intellettuali spesso dirompenti e positive, difficile negarlo, ma negli ultimi anni abbiamo vissuto con maggiore intensità alcuni effetti meno benefici, come accade per qualsiasi fenomeno storico.

Il Forum di Davos, a dispetto della propria immagine di torre d’avorio del jet-set planetario, a suo modo ne ha preso atto. Nel gennaio 2017, in apertura del Forum, si applaudiva in modo acritico il presidente cinese Xi Jinping, dipinto allora come alfiere della globalizzazione. In questo gennaio 2023, ad aprire il Forum, sono state le parole della first lady ucraina, Olena Zelenska, contro l’invasione militare russa, e le critiche rivolte dalla presidente della Commissione Ue, von der Leyen, all’«aggressività cinese». Insomma, l’Uomo di Davos non ha sempre ragione, ma quanto accade al Forum di Davos ci può aiutare a leggere dove va il nostro mondo.

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