Ludopatia, prevenire per evitare la deriva

ITALIA. Dal fastidio all’attenzione. Mettendo in conto che magari, un giorno, quell’uomo o quella donna ipnotizzato di fronte a una slot machine potrebbe essere uno di famiglia.

I giocatori d’azzardo problematici raramente vestono i panni di uno sbandato perché la bugia – lo ammettono loro stessi – è il loro abito. E spesso è troppo tardi quando si rendono conto che è ora di farsi ripescare dal baratro. Gli ultimi numeri del volume di gioco nella nostra provincia non fanno altro che rimettere sotto il grandangolo un fenomeno in crescita.

I numeri del fenomeno «azzardo»

Certo non è il boom del 2018, ma la risalita dall’anno (quasi) zero che fu quello dell’inizio della pandemia è purtroppo ben avviata e ci si sta avvicinando alle cifre più preoccupanti: nel primo semestre del 2024 – sono i dati più aggiornati – tra apparecchi Vlt (gli apparecchi che possono essere installati esclusivamente nelle sale bingo, agenzie e negozi di scommesse sportive e ippiche, sale giochi e nelle sale dedicate) e Awp (comunemente conosciute come macchinette o slot machine), scommesse, giochi numerici e lotterie, i bergamaschi hanno speso 705 milioni e mezzo di euro. Di questo passo, per la fine del 2024 non sarà difficile raggiungere il miliardo e 411 milioni di euro (per i dettagli rimandiamo alle pagine 32 e 33).

Gioco d’azzardo: non solo proibizionismo

Ma numeri e storie, come quella di un detenuto nel carcere di via Gleno che racconta la sua vita stretta nelle grinfie di un padrone che per anni ne ha manovrata ogni mossa – il gioco alla roulette nei casinò di mezzo mondo – impongono di aprire lo sguardo alle possibili soluzioni. Non per bandire da ogni angolo della nostra provincia sale slot e gratta e vinci, anzi: è da lì che gli esperti intendono partire. Perché «prevenire le derive sociali, sanitarie e psicologiche che discendono dal consumo di gioco d’azzardo vuol dire uscire da una logica esclusivamente proibizionista e affiancare tale approccio ad un’alternativa di vita», scrive la Caritas di Roma mettendo a fuoco questo che è ormai un acclarato fenomeno sociale alla deriva.

L’iniziativa con i gestori delle sale gioco

Allora non è una sprovveduta iniziativa quella messa in campo dalla cooperativa «Il Piccolo Principe» con l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Ats Bergamo e As.Tro, associazione che rappresenta gli operatori del gioco lecito. Per un certo periodo hanno tenuto d’occhio ciò che succede dentro 9 sale slot della provincia (che sono in calo, ma sempre più grandi e posizionate lungo le arterie stradali più trafficate: a Dalmine, Seriate, Grumello soprattutto) e somministrato questionari al personale di sala. Serviranno poi per impostare azioni preventive, perché anche chi «vende» azzardo può fare la sua parte ed evitare che il gioco diventi gabbia.

Sinergia tra le istituzioni

La parola magica è dunque sinergia. A Bergamo ci si prova dalla fine del 2013: Ats, Comuni, sindacati, volontari, operatori sanitari e del terzo settore, perfino direttori di banche e di locali di gioco. Certo lo dice la legge – e i fondi regionali lo finanziano – che vanno impostati percorsi di formazione, diffusi e fatti propri codici etici di autoregolamentazione, segnati confini entro i quali l’azzardo non deve stare. Ma l’impegno di sindaci e operatori spesso deve fare i conti con la consapevolezza che nella faretra si hanno frecce spuntate. La storia di questi anni è piena di regolamenti comunali e ricorsi, controricorsi e poi stop, il gioco prosegue. Intanto ancora si attende la tanto sospirata legge di riordino.

Sempre più giovani si rivolgono al SerD

Dentro numeri preoccupanti, un segnale incoraggiante, o forse no. Sempre più giovani si rivolgono ai SerD e Smi per farsi curare dal gioco malato: gli under 29 anni passano dal 7,5% nel 2009 all’11,5% nel 2021 e anche in anni più recenti si registra un aumento. Cresce la consapevolezza che se ne può uscire affidandosi ai centri giusti o semplicemente sono proprio i giovani a giocare di più? Nel dubbio, un motivo in più per seguire la linea della prevenzione, tutti e non soltanto chi ha il camice bianco addosso. Perché il problema è anzitutto culturale, prima che sanitario.

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