Londra al voto cerca ancora un equilibrio dopo la Brexit

IL COMMENTO. In questo 2024 in cui 76 Paesi, dall’India agli Usa, dovevano affrontare elezioni, il voto meno atteso, almeno per il modo in cui è stato deciso, è quello cui saranno chiamati i cittadini britannici giovedì 4 luglio.

Ricordiamolo: zuppo per la pioggia battente, il 22 maggio il premier Rishi Sunak annunciava il voto anticipato, sotto gli sguardi attoniti di una nazione intera. Da mesi, infatti, qualunque iniziativa del Governo sembrava destinata a naufragare e i sondaggi davano i Conservatori in ritardo rispetto ai Laburisti di almeno 20 punti percentuali. Anche nei giorni scorsi, una rilevazione dell’Economist ha previsto una larga sconfitta per i Conservatori, accreditati di un risultato «medio» di 106 parlamentari e di uno «massimo» di 202 contro un «medio» di 434 e un «massimo» di 521 per i Laburisti, sui 632 seggi totali in palio.

Come se non bastasse, è ricomparso Nigel Farage, il famoso attivista della Brexit che, con una nuova formazione chiamata Reform UK, si è messo a picconare proprio i Conservatori, accusandoli di aver tradito la scelta anti-Ue dei cittadini. Le polemiche dei giorni scorsi, quando un gruppo di attivisti di Reform UK è stato pescato a distribuire insulti razzisti ai danni di Sunak (nato nel Regno Unito ma con nonni indiani), chiamato tra l’altro «maledetto pakistano», dà l’idea del tanto peggio tanto meglio scelto da Farage.

I fedelissimi di Sunak difendono la scelta del premier, presa quando le previsioni economiche sembravano infine volgere al meglio. Recessione sventata, inflazione in calo, indizi di crescita. Coerente la gestione della crisi ucraina. Sondaggi o no, era comunque il momento meno negativo da quando Sunak era arrivato al governo nel 2022. Quindi, perché aspettare ancora?

Keir Starmer (anzi, Sir Starmer), l’avvocato che dal 2020 guida l’opposizione laburista, non ha fatto molto per ritrovarsi in testa. Lui ha ereditato, con scarsa concorrenza, un partito prostrato dalla sconfitta del 2019 e dalle dimissioni di Jeremy Corbin. E i Laburisti, a loro volta, non hanno fatto altro che osservare le mattane dei Conservatori: Cameron che nel 2016 si segna la strada con il referendum sulla Brexit, la May che si dimette nel 2019 perché non riesce a far passare l’accordo sulla Brexit, Johnson travolto dagli scandali e Truss travolta da se stessa dopo soli quaranta giorni. L’attesa non è stata breve ma ha pagato, perché i Conservatori sembrano ora collassati sui propri errori, con Sunak che rischia di pagarli tutti insieme.

La «ricetta Starmer», ammettendo che esista, è ascrivibile a quella che viene chiamata «sinistra morbida», molto lontana dai massimalismi dell’era Corbyn. Spesa pubblica ma con moderazione. Aumento delle tasse ma solo per il 5% più alto dei redditi. Sull’immigrazione, uno dei tasti dolenti della gestione dei Conservatori e uno dei cavalli di battaglia della destra di Farage, strategie vaghe e poco impegnative.

Non a caso, anche pensando al dibattito con il poco carismatico Sunak, sarebbe difficile dire che Starmer ha prevalso. E si batteva contro un premier che tenta una rimonta disperata, azzoppato da scandali piccoli e grossi (i collaboratori che scommettevano sulla data delle elezioni conoscendola in anticipo, la moglie miliardaria che usufruiva di sconti fiscali…) e morso dalla diserzione che Reform UK promuove nelle file dei Conservatori.

È difficile, quindi, che l’ormai probabile vittoria dei labour possa cambiare in modo radicale la situazione in una Gran Bretagna che dalla Brexit in poi sembra aver perso equilibrio, raziocinio e anche un pizzico di identità.

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