L’omicidio di Willy
non cada nell’oblio

La madre Lucia chiamava il figlio Willy «il mio fuscello», tanto era gracile. Ora non si dà pace per non essere riuscita a proteggerlo in quella maledetta notte tra il 5 e il 6 settembre scorsi quando a Colleferro (Frosinone) il «fuscello» si è infilato fra degli energumeni per difendere un amico da una rissa e fare da paciere, un ruolo così fuori moda in questi tempi di mito della forza. Lucia parla del figlio come se fosse ancora il suo bambino. È un legame d’amore inossidabile, quando è sano, quello che lega i genitori alla prole. Ne è testimonianza un altro fatto di rara bellezza umana che si ripete in questi giorni: Hafsa, 15 anni, il 1° settembre scorso è stata inghiottita dal fiume Adda a Sondrio, mentre tentava di attraversarlo per raggiungere una spiaggetta. Il suo corpo non è ancora stato trovato. Il papà nella giornata della tragedia era in Marocco. Da quando è tornato, ogni mattina va al fiume in bicicletta, si immerge e cerca la figlia. Una scena straziante, immortalata da un video pubblicato su Facebook. Solo a pensarci fa venire la pelle d’oca: un gesto espressione di un amore incalcolabilmente più grande dell’odio e della violenza che ci racconta la cronaca nera quotidianamente.

C’è una fotografia di Willy Monteiro Duarte, ventunenne di origini capoverdiane, che più di altre ha fatto breccia: lo ritrae ancora studente all’Alberghiero con un bel sorriso, solare e scherzoso, spinto verso l’obiettivo. Ottenuto il diploma, lavorava come aiuto cuoco, con l’ambizione di diventare chef. Le sue immagini contrastano con quelle dei quattro arrestati per il delitto, in particolare dei fratelli Bianchi: busto e braccia debordanti di muscoli e tatuaggi, sguardo sfidante da ceffi. Qui però va fatto un inciso: la giustizia non è lombrosiana, non condanna le persone in base all’aspetto fisico ma con testimonianze, referti dell’autopsia, tracce sul luogo dell’omicidio, eventuali intercettazioni. Prove insomma. Quel che è certo è che Willy è stato ucciso da una forza travolgente, a calci e pugni anche quando era a terra: una violenza vigliacca. Si è detto e scritto «animalesca»: ma gli animali uccidono con un gesto istintivo per fame, per difendere sè o il proprio spazio, gli umani per odio, vendetta o per una forma perversa di godimento, dopo aver perso la razionalità di cui sarebbero portatori.

Ieri centinaia di persone al campo sportivo di Paliano (Frosinone) hanno partecipato ai funerali del ventunenne, vestendo magliette o camicie bianche (anche il premier Conte) come chiesto dalla famiglia: il bianco infatti è segno di purezza e di gioventù. Nell’omelia il vescovo di Tivoli e Palestrina Mauro Parmeggiani ha ricordato il gesto di Willy, «l’aver perso la vita in quella forma grande che Gesù ci ha insegnato nel Vangelo: “Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per gli amici!”». Poi ha rivolto un appello: «Perché la morte barbara ed ingiusta di questo giovane non cada nell’oblio impegniamoci tutti - istituzioni, forze dell’ordine, uomini e donne della politica, della scuola, dello sport e del tempo libero, Chiesa, famiglie e quanti detengono le chiavi di un potere enorme: quello dei media ed in particolare dei media digitali - a comprometterci insieme, al di là di ogni interesse personale e senza volgere lo sguardo altrove fingendo di non vedere, impegniamoci tutti, dicevo, a riallacciare un patto educativo a trecentosessanta gradi». Conte ha chiesto invece di contrastare la mitologia della violenza. Sia quella fisica che quella verbale hanno ormai campo libero, invadono la tv, sono state sdoganate dall’individualismo, dall’anomia, da una libertà malata perché priva di limiti e responsabilità. Al culto dell’io va sostituito l’amore del noi, di comunità dove le relazioni non sono all’insegna della competizione ad ogni costo, ma della buona convivenza e dell’aiuto. Ci vuole coraggio, quello che il fuscello Willy aveva.

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