
(Foto di Ansa)
Tra i primi a scendere in campo per difendere Marine Le Pen dalla condanna per appropriazione indebita è stato proprio lui, Matteo Salvini («Forza amica mia!») in compagnia di Putin e di Orban e di altre destre europee.
Un’altra occasione, per il leader della Lega che presto il congresso del partito confermerà alla segreteria in assenza di concorrenti, per stampigliare nella mente degli elettori che se c’è in Italia un rappresentante autentico della destra trumpian-putiniana, nemico del riarmo anti-russo e avversario dei «burocrati di Bruxelles», questi è lui.
A differenza di Giorgia Meloni che, come scrive il New York Times, in quanto presidente del Consiglio deve destreggiarsi tra la Casa Bianca e Palais Berlaymont, Salvini parla liberamente ogni giorno a ruota libera, dà del «matto» al presidente della Repubblica Francese Emmanuel Macron e della «guerrafondaia» a Ursula von der Leyen («La vera nemica delle aziende italiane è lei, altro che Trump») arrivando persino - ma lo ha detto una volta sola, poi non lo ha più ripetuto - a difendere i dazi americani «come una opportunità per le imprese italiane».
Il punto però è che Salvini è, oltre che leader della Lega, anche uno dei due vice della presidente del Consiglio e non passa giorno che non crei a palazzo Chigi qualche problema diplomatico, oltreché, si intende, anche qualche (per quanto piccola) preoccupazione per una possibile aratura salviniana dei terreni elettorali di Fratelli d’Italia: in fondo non è difficile sventolare la bandiera della destra senza sentirsi costretto dagli obblighi, dalle opportunità e dall’etichetta di governo.
Per il momento la premier, a differenza di Antonio Tajani (che gli ha dato, senza nominarlo, del «quaquaraqua» e dello «sfasciacarrozze») non ha preso le distanze in pubblico dal suo incontrollabile alleato, preferendo diverse reprimende in privato, per la verità piuttosto rumorose. Però deve aver avuto un significato quello che Meloni ha deciso di fare nel fine settimana: andare all’assemblea di Azione e farsi vedere in atteggiamento di grande cordialità con Carlo Calenda insieme a Donzelli e a Crosetto. Ai leghisti la circostanza non è sfuggita, e i sospetti sono fioriti di conseguenza: è da tempo che si parla di un possibile accordo di Azione con il centrodestra su alcune candidature nelle prossime regionali.
Ma più ancora, circola a Montecitorio la voce secondo cui Calenda potrebbe trovare un accordo con Fratelli d’Italia per varare una nuova elegge elettorale di tipo proporzionale. Un meccanismo che affosserebbe definitivamente questo logoro bipartitismo, tagliando le ali a sinistra e a destra, e che consentirebbe a Meloni di incassare tutto il tesoretto elettorale tenendosi le mani libere, mentre punirebbe proprio la Lega. Calenda e tutti i centristi potrebbero nel contempo provare a far rinascere un Terzo Polo. Come la Lega, anche il M5S uscirebbe danneggiato, al contrario il PD potrebbe tentare di riconquistare, voto dopo voto, almeno una parte di ciò che un tempo era tutto suo.
Da questa ipotesi di intesa sulla riforma elettorale qualche commentatore si allunga a dire che Azione potrebbe fare da contraltare alla Lega nella coalizione di centrodestra, rendendo così il movimentismo salviniano meno urticante per i suoi alleati. Naturalmente è un po’ presto per fare queste ipotesi però è bene tenerle a mente, e ricordarsi che molto raramente, per non dire mai, un presidente del Consiglio decide di andare al congresso di un partito di opposizione, prendere la parola e perdipiù incassare non pochi applausi. Qualcosa vorrà dire.
© RIPRODUZIONE RISERVATA