L’odio per il Papa
e gli stati furbi

L’Italia ha un vergognoso primato: ne abbiamo dato conto ieri e riguarda il numero di parole d’odio verso il Papa quando scrive di migranti in Twitter. Ma la situazione non è diversa su Facebook. Il pontefice scrive e parla anche d’altro naturalmente: dalle ingiustizie economiche all’aborto, dai conflitti dimenticati al traffico d’armi, dalla tutela dell’ambiente ai mali della Chiesa e alla catechesi soprattutto. Ma gli odiatori sentono e leggono solo ciò che li conferma nei loro pregiudizi. Francesco ha detto più volte che esiste anche un diritto a non emigrare e che l’accoglienza deve essere proporzionata alle possibilità degli Stati. Ma alcuni fanno i furbi.

La posizione sui migranti del cosiddetto gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) è nota: no all’accoglienza, nemmeno di una sola persona sbarcata sulle coste italiane. Questo no inflessibile nasconde però un sì flessibile: il quartetto ha infatti un bisogno urgente di stranieri per far funzionare le economie. E fa entrare dall’estero più migranti economici di tutti gli altri Stati europei messi insieme. Tra il 2017 e il 2019 solo la Polonia ha accolto due milioni di lavoratori stranieri (la fonte è il Wall Street Journal e il dato non è stato smentito da Varsavia). I partiti che governano i Paesi di Visegrad sono andati al potere con campagne elettorali fortemente incentrate su slogan anti migranti, salvo poi necessitarne per mantenere la loro economia.

Qualche giorno fa a Roma il primo ministro ungherese Viktor Orban ha parlato per l’ennesima volta di «invasione dell’Europa» e di stranieri «che sono chiaramente economici». Ma non ha detto che nel 2018 proprio l’Ungheria ha concesso un permesso di soggiorno a 50 mila immigrati economici (il doppio del 2017, con una popolazione che è un sesto dell’Italia) perché servono all’economia magiara. Spesso viene irrisa se non maledetta l’affermazione « abbiamo bisogno di manodopera straniera»: i migranti non ci rubano il lavoro infatti ma svolgono mestieri complementari a quelli degli autoctoni (in Italia il decreto flussi 2019 firmato dall’allora ministro Salvini ha riguardato 30 mila persone, seppure la crisi morda ancora). I quattro Stati di Visegrad hanno bisogno di lavoratori stranieri perché la crisi demografica colpisce anche da quelle parti. Inoltre tre milioni di abitanti si sono trasferiti a lavorare nella più ricca Europa occidentale e i soldi che spediscono a casa sono un gruzzolo importante, il 3,3% del Pil per la sola Ungheria.

Ma il tentativo dei quattro Paesi è di mantenere l’immigrazione il più possibile bianca e cristiana (ucraini e bielorussi soprattutto), perché non dà nell’occhio. Per questo sono contrari alla ripartizione di chi sbarca in Italia: dovrebbero accogliere anche africani e arabi. Seppure anche fra questi vi siano cristiani (eritrei, iracheni, nigeriani e palestinesi per esempio). Ma il problema come abbiamo visto non è «non vogliamo immigrati», slogan socialmente e culturalmente più accettabile di «non vogliamo neri». Il quartetto rifiuta compromessi con la Ue, ma è il beneficiario maggiore dei fondi dell’Unione: 122 miliardi di euro tra il 2014 e 2020. La politica del «bianco e cristiano» però sta mostrando i suoi limiti, le risorse umane non sono infinite: l’Ungheria allora sta accogliendo vietnamiti, indiani e mongoli, la Polonia 20 mila nepalesi e 8 mila bengalesi.

Intanto, a commento del vertice di Malta, Di Maio ha detto che «la redistribuzione dei migranti non è la soluzione al fenomeno migratorio. La risposta è il blocco delle partenze, per questo dobbiamo stabilizzare la Libia». Ma il nostro ministro degli Esteri ha perso un giro: le partenze dalla Libia sono drasticamente calate, per il conflitto, per i supplizi fisici a cui sono sottoposti i partenti e per la pericolosità del viaggio (uno su venti muore in mare). Le partenze avvengono ora anche da Tunisia, molto vicina a Lampedusa, Algeria e Turchia (su più comode imbarcazioni). Il presidente turco Recep Erdogan ha ricattato l’Ue: chiede sostegno economico e politico per la creazione di una «zona di sicurezza» nel Nord della Siria dove portare un milione di profughi siriani dei 3,6 accolti, altrimenti farà saltare l’accordo del marzo 2016, quando l’Ue gli versò 6 miliardi di euro per bloccare i siriani in Turchia. Ma Erdogan ha già aperto un rubinetto, quello che porta i migranti sulla rotta balcanica, direzione Italia (dalla Slovenia entra lo stesso numero di stranieri che sbarca sulle nostre coste e il governatore del Friuli, il leghista Massimiliano Fedriga, è tornato a chiedere una barriera di separazione) e Nord Europa. Rotta mai chiusa del tutto e tornata ad essere fortemente battuta. Le migrazioni sono molto più complesse degli slogan con i quali vengono raccontate. E il problema sarebbero le parole del Papa? Non scherziamo.

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