Liti sui social, ognuno deve fare la sua parte

ITALIA. La sentenza suona bizzarra. Una donna viene accusata dal suo futuro marito di averla tradito. Il fu promesso sposo gira l’accusa in un video e lo posta sui social. L’esito è più scontato del ritardo di un treno: donna travolta da un delirio di insulti.

E che fa, la poveretta? Si rivolge a un giudice, il quale sentenzia di fatto di non poter procedere perché «il luogo dove vengono pronunciate le offese conta», e non è più possibile attendersi che le critiche a fatti privati vengano espresse con toni «misurati ed eleganti». Cioè: in poche righe il giudice ha smontato non solo la legittima aspettativa di vedersi tutelati in sede giudiziaria dalle aggressioni sui social, ma anche - e forse soprattutto - secoli di buone maniere insegnate da genitori e nonni. Se è da poveri illusi attendersi toni misurati, allora alziamo bandiera bianca e dichiariamo nero su bianco aperta l’epoca del dito medio che sostituisce buongiorno, buonasera, per favore e grazie.

Si alza il tasso di litigiosità

La vicenda però non può essere troppo semplificata. Come in tutte le questioni esistono molteplici sfumature. Certi social - Facebook su tutti, non a caso è il «social dei vecchi» - presentano un tasso di litigiosità spaventoso. Se ogni parola fuori posto che viene scritta dovesse finire in tribunale - e a rigor di diritto potrebbe - la giustizia italiana finirebbe paralizzata ben più di quanto già non lo sia. Per cui occorre distinguere e occorre buon senso. Il caso che sta facendo discutere - quello della donna accusata di tradimento ed esposta a centinaia di insulti - non andava affatto sottovalutato. Quindi la sentenza potrebbe anche dire cose sensate, ma le applica a un caso in cui era bene procedere e non derubricare.

Se si sentenzia che «il luogo conta», e che dunque sui social vale tutto, allora vale anche diffamare? Allora vale che un cittadino entri nella community di un paesello e scriva ai partecipanti che il sindaco è un ladro? Può funzionare un Paese in cui se quell’accusa viene detta in strada davanti a dieci persone è passibile di querela mentre se viene scritta sui social - siccome «il luogo conta» - passa in cavalleria? No, non funziona

Diverso è, invece, se legioni di boomer litigano per qualsiasi cosa e poi pretendono giustizia in aula. In questi casi - e sono la grandissima parte, dato che su Facebook non c’è tema che non dia spunto a feroci litigate, che poi degenerano - la giustizia ha tutto il diritto di considerarsi una cosa seria, e che i boomer se la risolvano tra loro. Ma è vitale distinguere. Se si sentenzia che «il luogo conta», e che dunque sui social vale tutto, allora vale anche diffamare? Allora vale che un cittadino entri nella community di un paesello e scriva ai partecipanti che il sindaco è un ladro? Può funzionare un Paese in cui se quell’accusa viene detta in strada davanti a dieci persone è passibile di querela mentre se viene scritta sui social - siccome «il luogo conta» - passa in cavalleria? No, non funziona. Occorre distinguere, occorre buon senso, occorre che ognuno faccia la sua parte.

Verifica sulle identità

Occorre che faccia la sua parte la giustizia, dunque. Ma occorre che faccia la sua parte chi anima e partecipa ai social, che non scriva in post e commenti, quindi davanti a una moltitudine di persone, ciò che non direbbe al bancone del bar, davanti a dieci collezionisti di calici di rosso. Occorre in primis che facciano la loro parte le piattaforme, per tenere pulito l’ambiente che «vendono». Qual è il posto - l’unico, pensandoci - dove ci si può iscrivere e interagire sotto mentite spoglie, senza che nessuno esiga di verificare l’identità del proponente? I social, facile. E quando un prodotto è globale, non può bastare la legge di uno Stato a fare disciplina: occorre che la regola sia imposta da chi gestisce la piattaforma per tutto il mondo. Altrimenti potremo anche avere il giudice più severo possibile, disposto a sanzionare anche l’insulto più piccolo, ma se al procedimento dovrà aggiungere la complessa ricostruzione dell’identità del reo, in sintesi, buonanotte.

Resta un fatto, che risolverebbe tutto: a prescindere dal codice penale, basterebbe ricordarsi le buone maniere, e non vomitare sui social ciò che altrove non diremmo. Ma basta vedere cosa accade per strada, dove la faccia la mettiamo ma siamo protetti da un vetro, per capire che la speranza è quasi vana. Ma questo non significa rassegnarsi a vivere nell’epoca del dito medio, per giunta impunito. Ognuno faccia la sua parte: i social sono uno strano universo, ma non ancora un mondo a parte.

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