L'Editoriale / Bergamo Città
Lunedì 03 Agosto 2020
L’Italia inferma
non esiste più
Sorpresa: l’Italia era l’inferma d’Europa, ma sembra guarita. Firmato: Paul Krugman, Nobel dell’economia. Chi pontifica e straparla dal salotto tv a reti unificate potrebbe redimersi tenendo a mente alcuni concetti scritti dal polemista liberal in contemporanea sul «New York Times» e su «El Pais» dei giorni scorsi che, partendo dalla scoperta di un premier anomalo qual è Conte (l’unico capo di governo in Europa senza partito), rivaluta la resilienza italiana durante l’emergenza Covid. Rende a Cesare ciò che è di Cesare. Da reprobi a modello, sempre che non arrivino smentite. Non sappiamo come andrà a finire e, pur senza dimenticare la caduta degli dei (il modello sanitario della Lombardia), qualcosa andrà però riscritto di un pezzo di storia italiana: un certo discorso irriducibilmente pessimista sugli italiani, un dolente canone nazionale raccontato nei termini di una decadenza quale fattore decisivo dell’identità italiana, potranno essere riformulati abbandonando lo schema di un inossidabile primato negativo del Paese.
Dunque, osserva Krugman (solitamente più disponibile alla stroncatura che all’endorsement): «L’Italia ha schiacciato la curva: ha mantenuto il blocco in atto fino a quando i casi erano relativamente pochi ed era cauta riguardo alla riapertura. L’America avrebbe potuto seguire la stessa strada. Ma non lo ha fatto». Gli americani possono invidiare la resistenza italiana, «il suo rapido ritorno a una sorta di normalità che è un sogno lontano in una nazione che si congratulava con se stessa per la sua cultura del fare». Per un Trump pro business, il fallimento dell’«America first» è passato attraverso la precedenza assegnata all’economia e non alla salute. L’opposto del format italiano, inaugurato senza poter contare su schemi precedenti.
Sia chiaro: il Nobel è esplicito nel suo essere di parte, essendo lui la prima linea dell’anti trumpismo, e per certi aspetti l’elogio all’Italia è funzionale a questo disegno. Tuttavia Krugman si esprime con il linguaggio dei fatti. E questo vale anche per un Paese come la Svezia che, pur non allineata all’ortodossia negazionista, s’è mossa in maniera ibrida. E così l’allieva prediletta della socialdemocrazia europea, caposcuola del welfare «dalla culla alla bara», è andata a sbattere, come hanno rilevato 25 scienziati svedesi: «La strategia ha portato alla morte, al dolore e alla sofferenza e per di più non ci sono indicazioni che l’economia svedese abbia avuto risultati migliori rispetto a molti altri Paesi».
L’Italia, nella fase 1, ha usato il buon senso e qui Krugman coglie la divaricazione con il suo Paese: da un lato l’Italia «comunemente descritta come l’inferma d’Europa», mentre stavolta è l’America che «s’è convertita in questo», facendo «una figura patetica sullo scenario mondiale». Anche a Krugman restano appiccicati alcuni stereotipi del costume italiano, perché un po’ spaesato si chiede: com’è possibile aver fatto peggio dell’Italia? Tutto congiurava per una soluzione diversa: la nostra burocrazia non ha fama di essere efficiente, gli italiani non sono campioni nel rispettare le norme, il debito pubblico è una zavorra. Eppure, nel contrappunto con gli States e nonostante «l’opposizione patologica all’uso delle mascherine trasformatosi addirittura in guerra culturale», il miracolo italiano è avvenuto, perché non abbiamo «sopportato il carico della disastrosa guida statunitense».
«El Pais», dal canto suo, dedica tre pagine dell’inserto culturale della domenica, a un ritratto-editoriale a Conte, «il leader emerso dalla pandemia». Nel ripercorrere la parabola del capo del governo italiano, il quotidiano socialista ricorda che il Conte I era stato scelto quale «soluzione grigia» in modo da non disturbare i manovratori (Salvini e Di Maio), mentre il Conte II è sostenuto da una consistente fetta dell’opinione pubblica e dovrà decidere se andare avanti con un proprio partito o meno. Ma non è più l’Italia messa nell’angolo, nel febbraio dell’anno scorso, dal leader dei liberali europei, Guy Verhofstadt, che apostrofava così Conte: «Sono un grande innamorato dell’Italia, ma mi duole vedere la degenerazione politica di questo Paese, fino a quando lei, Conte, sarà una marionetta di Di Maio e Salvini».
Oggi, invece, siamo rientrati in Europa e – precisa il giornale – nelle 92 ore del vertice che ha confezionato il Recovery Fund il premier italiano ha potuto prendersi un’ora e mezza di discorso da giurista per spiegare la necessità di cambiare un solo termine nella bozza dell’accordo («esaustivo» al posto di «decisivo»), senza che la Merkel desse segni d’impazienza. Anche qui «El Pais» gioca di sponda fra la Spagna del socialista Sanchez e l’Italia di Conte, ma almeno in questa occasione non abbiamo sbagliato i compagni di strada. Difficile dire se il Conte della fase 3 possa ricevere gli apprezzamenti della fase 1. Sul governo pesano i contrasti nella maggioranza e la tecnica del rinvio delle decisioni è un danno per il Paese. Sul Mes, i 37 miliardi per la sanità, Conte continua ad essere ambiguo e dilatorio. Non si capisce quali siano i criteri per definire le priorità dell’impiego del Recovery Fund in quella che rimane la seconda manifattura europea. In un’Italia in cui la produttività (l’indicatore più significativo dello stato di salute dell’economia) da 20 anni continua a calare. Il cambio di passo s’è visto nella gestione dell’emergenza, ma non ancora in prossimità delle incognite d’autunno.
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