![](https://storage.ecodibergamo.it/media/photologue/2019/8/3/photos/cache/litalia-ha-bisogno-di-qualita-e-spinta_10c4296a-b6b4-11e9-8d7a-1a18c2f2279b_900_512_v3_large_libera.jpg)
L'Editoriale / Bergamo Città
Domenica 04 Agosto 2019
L’Italia ha bisogno
di qualità e spinta
Bene che vada siamo alla frutta, e chissà se i sonnambuli a dorso nudo e che tutto possono ne sono consapevoli. Il Pil non cresce, c’è aria di stagnazione, anche la locomotiva Lombardia rallenta, si ripropone la questione meridionale, il debito pubblico torna in area critica. Capriole con coriandoli nell’anno bellissimo anticipato da Conte e che, per Di Maio, segnerà la scomparsa della povertà. La realtà bussa di nuovo e smonta alcune certezze: nel Sud in 15 anni è scomparsa la popolazione di una città come Napoli e il dramma non sono i migranti che arrivano, ma i giovani e i laureati che se ne vanno.
I governi, un po’ tutti, scontano un deficit di crescita culturale e di politica industriale (semmai c’è stata) in linea con l’evoluzione del Paese. Per come siamo messi, e ragionando per assurdo nei limiti del contesto, l’urgenza immediata pare essere la riduzione del danno più che l’inespressa vocazione alla crescita: meglio (meno peggio) poco governo piuttosto dell’applicazione totale del contratto del governo del cambiamento, che sta sfidando la forza di gravità. Finché i provvedimenti vengono ammorbiditi dal «salvo intese», che difficilmente si troveranno, si può nutrire la ragionevole speranza che lì sono e lì resteranno parcheggiati: quel «salvo intese» che tutto rinvia si tramuta in ammortizzatore, in clausola di sopravvivenza un po’ per tutti. Galleggiare, senza affondare. Vorrei, ma non posso: meglio così. Capita, infatti, che il rammendo sia peggio del buco.
Nell’epoca dello zero (zero Pil, zero cultura politica, zero classe dirigente) il mondo alla rovescia dell’Italia riflette l’assenza di una spinta vitale dal basso a camminare e a crescere, gli ingredienti del boom economico: così dice a «la Repubblica» il sociologo Giuseppe De Rita, che da mezzo secolo studia il costume italiano, e c’è da credergli. Senza questa chimica vitale e nell’era della tempesta perfetta, a crescere sono solo le parole in libertà, la bolla del vuoto pneumatico, perché ognuno può dire ciò che vuole senza che resti traccia memorabile fra un tweet e l’altro. Un linguaggio per stomaci forti che ha perso il senso della misura, parole ripetitive buttate lì in modo sgrammaticato anche sul lato istituzionale, che scivolano sul piano inclinato di un eloquio a tratti sgradevole. Pronto ad esibire lo scalpo, alla crociata contro un nemico da costruire, giusto il tempo di inventarsene uno. E per fortuna Di Maio s’è detto stanco di litigare, accorgendosi – accidenti – che le scazzottature danneggiano il Paese (naturalmente il discorso va esteso ai soci e ai tanti). Perché c’è un Paese reale, serio e sgobbone, quella maggioranza silenziosa in sofferenza, che un giorno o l’altro, per sfinimento, potrebbe dismettere il silenzio e staccare la spina di un consenso pur sempre alto.
Mezzo secolo dopo si ripropone la più nota analisi dello statista democristiano Aldo Moro, cioè «l’incoerenza fra società civile, ricca di molteplici espressioni ed articolazioni, e società politica: tra esigenze, nel loro modo naturale di manifestarsi, ed il sistema approntato per farvi fronte e soddisfarle».
La politica non è tutto, specie se ai minimi termini, così come l’Italia non è solo la Milano Marittima dagli effetti speciali, dove – detto per inciso – papà Salvini non ha dato il meglio di sé. Ma anche nel tormentone da spiaggia, e dentro il lungo inverno di un’Italia smarrita che le ha provate tutte, vale la domanda di qualche intelligenza controcorrente: da quando abbiamo smesso di pretendere da chi ci governa quelle qualità attribuite a coloro che guidano il Paese?
©RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA