L'Editoriale
Giovedì 10 Dicembre 2020
L’Italia dei sussidi
non cura il rancore
La fotografia dello stato di salute del Paese del Censis registra le novità e le mode, ma non se ne fa condizionare. Le sue conclusioni sono costruttive e autorevoli. Per questo ci dobbiamo preoccupare di più quest’anno, con la 54ª edizione del Rapporto, che racconta di un’Italia chiusa e disposta a scambiare la propria autonomia con la difesa del benessere. Lo scorso anno si parlava della «società del rancore», ovvero del contrasto a prescindere. Un Paese che non si fida più di nulla e di nessuno, richiudendosi in un recinto di pochi contro tutti. A malapena si salva la famiglia. La vita pubblica è solo inganno, complotto, egoismo di pochi privilegiati. L’ossessione dello stipendio o della pensione più alti del proprio, l’invidia sociale. Onda lunga della voglia di far male «ai politici» anche a costo di far male a se stessi. Come se un’elezione, tanto per fare un esempio, di una Raggi, fosse un sondaggio, che dura un giorno, non l’avvio di un gigantesco lavoro amministrativo di 5 anni impossibile da reggere senza competenza e visione.
Quest’anno, l’immagine ad effetto di come sta l’Italia è quella di un carro che procede con le ruote quadrate. Deprimente, ma lo sapevamo. Come infatti poter descrivere diversamente un Paese in cui, già prima del Covid, il reddito medio individuale degli ultimi 25 anni (Giavazzi sul «Corriere» del 7 dicembre) è cresciuto dell’8%, contro la Francia del 30% e la Germania del 36%? Ma il Censis non si limita a constatare le cose. Interroga i cittadini e misura nel 38% la percentuale di chi sarebbe disposto a fare a meno dei diritti civili in cambio del benessere economico. Si può non condividere ma capire, nel clima della crisi sanitaria, l’emotività del rapporto di scambio tra sanità sicura e diritti. Qui si sale al 57,8% e, per i giovani tra 18 e 34 anni addirittura al 64,7%. Ma che la difesa spasmodica della quota di benessere raggiunta significhi gettare via come zavorra la quota di civiltà di un Paese, il suo patrimonio sia laico che religioso di valori, questo davvero preoccupa.
È indubbio che la crisi pandemica, diffondendo anche la paura fisica della propria sopravvivenza, ha contribuito a tutto questo, e il prolungarsi della situazione, i 100 miliardi (a debito) messi in campo dal governo, i 209 in arrivo dall’Europa, l’acquisto costante dei nostri titoli di Stato (che pagano stipendi e pensioni) dalle istituzioni sovranazionali, la cassa integrazione senza limiti, il blocco dei licenziamenti e degli sfratti, insomma tutto l’armamentario dell’emergenza dà la falsa illusione che questo mondo sussidiato sia quasi un modello alternativo, un modo diverso di organizzare la vita pubblica. È un pericolo gravissimo. La controprova viene da un’altra rilevazione del Censis e cioè dal fatto che il 40% degli italiani ritiene che nel dopo Covid sarebbe un azzardo avviare un’attività in proprio.
La prospettiva insomma è quella di un Paese che arretra, spaventato e desideroso solo di assistenza. Un Paese che nel recente passato ha già scambiato un pezzo della propria identità solidale per paura del diverso. E che ora è pronto a rinunciare al proprio Dna storico e culturale (inventiva, coraggio, imprenditorialità, sfida competitiva al mondo intero) in cambio di un bonus di mamma Stato. Che quest’ultima torni ad occupare l’economia, che faccia dell’intero sistema un’Alitalia che non decolla mai, poco importa. Basta che arrivi un sussidio. Censis ha calcolato che già siano stati trasferiti 2000 euro a testa ad un quarto della popolazione. Poco per quei 14 milioni di italiani, motivo di rabbia e contestazione per chi non li ha nemmeno visti da lontano. All’orizzonte di una società sussidiata ci sarà solo altro rancore.
Ecco perché la ripartenza dopo la già troppo lunga quarantena deve chiudere l’ombrello dei bonus e degli aiuti, e aprire il rubinetto degli investimenti. Solo nuovi posti di lavoro, nuove opere pubbliche e private con regole e burocrazia meno stringenti, ci possono salvare. Il benessere stesso non è mai una garanzia elargita ma il risultato di una grande fatica collettiva.
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