L’invettiva di Meloni e il ruolo dell’Italia

ITALIA. Quella di Giorgia Meloni mercoledì 26 giugno alla Camera, è stata una vera e propria intemerata contro l’Europa «gigante burocratico», «invasivo», «ideologico», da cui i cittadini si stanno allontanando.

Quella di Giorgia Meloni mercoledì 26 giugno alla Camera, è stata una vera e propria intemerata contro l’Europa «gigante burocratico», «invasivo», «ideologico», da cui i cittadini si stanno allontanando, «basta guardare i livelli di astensionismo», dove prevale la logica «del caminetto» – come si dice in gergo politico quando ci si riferisce ad un accordo tra i capi delle varie correnti – piuttosto che a quelle del consenso popolare. Ed è qui il nocciolo e la spiegazione dell’invettiva. Dice Meloni: i partiti che hanno fin qui governato l’Europa (soprattutto il Pse) e le leadership dei Paesi che hanno fatto da padroni (leggi Francia e Germania) «sono stati bocciati» alle ultime elezioni europee, e ciononostante «fanno finta di niente», anzi vanno avanti per la loro strada spartendosi le poltrone come se niente fosse ed escludendo i conservatori che invece il voto ha premiato: ma così – avverte – essi costruiscono «una maggioranza fragile» che non è all’altezza delle sfide che l’Europa ha di fronte.

Oggi a Bruxelles si riunisce il Consiglio europeo che designerà almeno tre dei vertici comunitari: il presidente della Commissione, quello del Consiglio europeo e l’Alto Rappresentante per la politica estera. Saranno un popolare (von der Leyen al suo bis), un socialista (il portoghese Costa) e una liberale (l’estone Kallas). È un accordo a tre pilotato da Macron con Scholz e Sanchez a fare da aiutanti che esclude totalmente ed esplicitamente l’Italia. Che è l’unico Paese europeo la cui maggioranza di governo, di centrodestra-destra, è stata premiata dall’elettorato mentre in Francia, in Germania e in Spagna sono state tutte bastonati. E proprio l’Italia, denuncia Meloni, viene tenuta fuori dall’accordo «secondo logiche – appunto - di caminetto e non di consenso». Insomma, la premier denuncia che mentre gli europei vanno da una parte, verso destra, i suoi governanti sterzano nell’altra direzione, e dicono: mai nessun accordo con i Conservatori di cui Meloni è presidente.

Tanta durezza nel discorso di ieri a Montecitorio fa pensare che Giorgia Meloni si riproponga, mantenendo un livello polemico molto alto, di provare ancora ad avere una possibilità di negoziato. Già, perché se in Consiglio l’accordo tra i governi è fatto, in Parlamento la cosa è molto più complicata.

Per essere confermata, a von der Leyen servono 361 voti su 720: sulla carta ne ha 399 ma in quell’aula i franchi tiratori sono una tradizione. E ora che l’accordo a tre scontenta mezzo partito popolare (soprattutto i tedeschi di Manfred Weber e Forza Italia di Antonio Tajani) non è escluso che Ursula riesca nel tentativo solo per pochi voti, e sarebbe sì un’anatra zoppa, o addirittura che possa affondare. Ecco perché le servirebbero i voti dei Conservatori (40) o almeno dei meloniani italiani (24). Se poi Macron e Scholz chiedessero i voti ai Verdi sarebbe ancora peggio: il Ppe si aprirebbe in due come un cocomero. Non a caso Tajani insiste: «Dobbiamo coinvolgere i Conservatori».

Persa la possibilità di dire una parola decisiva sul vertice europeo, Meloni potrebbe tentare di ottenere un posto importante in Commissione, una vicepresidenza esecutiva con un «portafoglio» di potere come il Pnrr e la Coesione. Alzare la voce per far sentire tutta la propria arrabbiatura, minacciare di trasformare la «mortificazione ricevuta» in vendetta è un modo per rientrare in gioco. Si potrebbe cominciare astenendosi oggi in Consiglio europeo sulle prime tre poltronissime, poi si vedrà.

Di sicuro un sostegno alle richieste dell’Italia sono venute da un’europeista convinto come Sergio Mattarella: «Non si può prescindere dall’Italia» ha scandito. Che però è esattamente quello che i francesi, i tedeschi, gli spagnoli e i polacchi al potere vogliono fare.

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