Inflazione, è una tassa
I timori del Nord

L’ inflazione fa paura. Soprattutto al Nord Europa. Al Sud ci si convive da decenni. Sono due mondi che faticano a capirsi. Jens Weidmann, presidente di Bundesbank pronostica in Germania un’inflazione del 5%. In termini di denaro spicciolo vuol dire che 2 milioni di euro di oggi, nel 2030, cioè nello spazio di nove anni diventano un milione e 290 mila euro. Una perdita secca di 710 mila euro che però nessuno vede perché la caratteristica dell’inflazione è di strisciare. Si muove impercettibile. Il possessore di banconote non vede mutare l’importo complessivo del denaro, ciò che cambia è il potere d’acquisto.

Morale: con gli stessi soldi il cliente compra meno di prima. La dimensione subdola del fenomeno rende l’inflazione particolarmente invisa. Dal 2000 ad oggi la massa monetaria in Europa è cresciuta del 200%, il che vuol dire che la Banca centrale europea (Bce) immette sul mercato più moneta di quanto il sistema economico in sé abbia bisogno. Una grande massa di denaro circolante ha però il vantaggio di permettere di finanziare parti improduttive della società o settori che hanno cessato l’attività.

La pandemia è un caso classico. Nel 2019 in Germania il debito pubblico era del 59,6%, quest’anno è schizzato al 70,1%. Il motivo è semplice, occorreva sostenere tutte le aziende che avevano chiuso e finanziare artigiani e piccoli imprenditori rimasti di colpo senza lavoro. Per far questo lo Stato tedesco ha dovuto indebitarsi ed è andato oltre il 60% previsto dai criteri di Maastricht. Ancora peggio è andata a Paesi come l’Italia che è passata dal 134,7% al 159,5% del Pil in termini di indebitamento. Senza l’intervento della Bce questa operazione non sarebbe stata possibile. Ecco che quindi l’inflazione diventa provvidenziale quando il danno causato dalla perdita di potere d’acquisto del denaro è compensato da una maggiore giustizia sociale. In termini politici vuol dire che chi dispone di un reddito paga lo scotto della svalutazione a vantaggio di chi vive una condizione di povertà o di assenza di reddito. Una situazione di emergenza che si giustifica solo a fronte di politiche che tendono a ridurre il fenomeno. I Paesi del Nord Europa temono però di finanziare settori improduttivi o situazioni di disagio sociale che si trascinano nel tempo e non vengono mai a soluzione. L’Italia in tal senso ha una storia istruttiva. Il divario fra Nord e Sud del Paese si esprime nella metà del valore del Pil pro capite. Tra il 1995 e il 2020, cioè in 25 anni, il calo della ricchezza prodotta nelle regioni del Mezzogiorno passa dal 24% al 22%. Dal 1950 al 2008 sono stati investiti, tradotti in euro, 342,5 miliardi. Vi sono stati momenti nella storia della Repubblica nei quali l’inflazione è arrivata al 20%. Una tassa occulta sul reddito da lavoro per finanziare la spesa improduttiva. È questo lo scenario horror che i Paesi del Nord Europa non vogliono veder riprodotto nello scenario allargato dell’Unione Europea. Da qui la richiesta di reintrodurre i criteri di Maastricht, ora sospesi causa pandemia, già nel 2023.

Il governo italiano lo sa. L’impegno a realizzare le riforme e condurre una politica economica che premi l’attività imprenditoriale è vitale per l’industria. La creazione di un ambiente favorevole alla concorrenza ha la funzione di stimolare l’attività produttiva anche in quei settori dove sino ad ora languiva. Una crescita economica stabile e superiore al 2009 può permettere al Paese di far fronte alla spesa sociale. Se si amplia lo spettro dei settori protetti che dipendono dalla mano pubblica, cresce anche il numero degli elettori favorevole ad una politica di sovvenzioni. Ed è questo il vero rischio. La vera sfida all’inflazione è quindi a Roma. Ed è l’ unico modo per guarire in Germania la sindrome di Weimar .

© RIPRODUZIONE RISERVATA