L'Editoriale
Sabato 14 Maggio 2022
L’inflazione diventa questione sociale
L’aumento ormai consolidato e, si teme, duraturo dell’inflazione sta diventando una questione sociale. Può far piacere solo al Ragioniere dello Stato, perché attenua il costo del debito pubblico, ma lo spread a 200 raffredda qualsiasi illusione. Per questo, con le ricadute sul costo della vita, diventano ancor più centrali la questione lavoro, salari e pensioni.
Beati i tempi in cui la politica si dilaniava su temi in realtà ineluttabili come l’immigrazione, i talk dibattevano una sera intera sui vitalizi, si faceva a gara per distribuire bonus, prebende, pensionamenti anticipati. L’inflazione morde e saranno dolori se si accoppierà alla stagnazione economica. Per fortuna il primo trimestre dell’industria segna un +3%.
La crescita dell’inflazione è da affrontare subito. Con l’avvento dell’euro ce ne eravamo dimenticati, tanto che la Bce usava la leva monetaria per raggiungere, senza riuscirci, un 2% fisiologico. Ma la frizione è slittata, la Germania viaggia a +7,4%, l’Eurozona a +7,5%, gli Usa all’8,3% e l’Italia si avvia al 7%. Per governarla, la Banca europea, che da ben 11 anni non interviene in materia, aveva annunciato un aumento del costo del denaro, così come ha già fatto due volte nel 2022 la Fed americana, poi aveva esitato per via della guerra, ma ora dice che non potrà aspettare oltre luglio.
La previsione annuale è che stipendi e pensioni crescano dello 0,8%, ma il potere d’acquisto calerà almeno del 5%. Chi percepisce 1.500 euro, perderà 100 euro reali al mese. Già in un periodo buono, tra il 2010 e il 2020, il valore delle retribuzioni è sceso dell’8,3%, ma almeno goccia a goccia, con qualche recupero, ma qui si ragiona a breve.
La previsione annuale è che stipendi e pensioni crescano dello 0,8%, ma il potere d’acquisto calerà almeno del 5%. Chi percepisce 1.500 euro, perderà 100 euro reali al mese. Già in un periodo buono, tra il 2010 e il 2020, il valore delle retribuzioni è sceso dell’8,3%, ma almeno goccia a goccia, con qualche recupero, ma qui si ragiona a breve. La ricerca Censis-Ugl ha registrato un 60% di lavoratori che considera la propria retribuzione impari rispetto al costo vita, con un 10% sotto soglia. La categoria dei «working poors», cioè chi lavora ma guadagna pochissimo, è il 13,3% tra i dipendenti e il 7,6% per gli autonomi. Non sarà certo il salario minimo a cambiare lo scenario, ora che le parti sociali sembrano più propense ad accettarlo (si sta lavorando sui 9 euro, ma Cgil preferisce una media dei contratti nazionali).
Tutto questo, dentro una evoluzione che subisce la spinta di fattori epocali: l’invecchiamento della popolazione, la rinuncia a cercare lavoro (peggiorata dalla pandemia), le nuove tecnologie (l’auto elettrica cancella letteralmente alcuni segmenti della componentistica), persino un fattore positivo come la sensibilità ambientale è un aggravio. Le politiche del lavoro (e qui è importante il Pnrr) devono sforzarsi di riportare nel mercato soggetti sempre più sfiduciati, per aumentare il tasso di occupazione complessivo, ora troppo basso. Vanno quindi superati gli assistenzialismi-boomerang come reddito di cittadinanza e decreti dignità che hanno scoraggiato la ricerca del lavoro. Così dicono gli operatori del turismo che fanno fatica a trovare addetti stagionali, e così lamentano settori scoperti ma strategici come quello degli infermieri, o addirittura – a livello diverso – dei medici di base.
La soluzione non sta ovviamente nel riavvio della spirale tra prezzi e salari. La scala mobile è stata abolita per referendum ai tempi di Craxi. La soluzione è una sola: la crescita. È ciò che può domare l’inflazione, diminuire il gap tra debito e Pil. Ma allora si deve puntare sulla produttività, e soprattutto avere il coraggio di incidere sul cuneo fiscale.
Costa 16 miliardi fino a 35 mila euro di reddito e potrebbe agire per due terzi a sostegno dei lavoratori e un terzo delle imprese, come auspicato dalla stessa Confindustria (oggi è finanziato al contrario: due terzi dalle imprese). Il tutto con l’accompagnamento, su cui insistono giustamente i sindacati: un mix di welfare, detassazione, decontribuzione. Alla fine, una busta paga netta superiore (come una mensilità in più) e un contributo strutturale dello Stato, non come i 200 euro.
Senza dimenticare che il salario è un protagonista che cammina non da solo, ma con due accompagnatori essenziali: la riforma generale del fisco e quella delle pensioni. Roba pesante, per un Governo che fa un passo avanti e due indietro persino sulle concessioni delle spiagge, oggi quasi gratuite.
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