L’industria delle armi e la voce sola del Papa

MONDO. Il guadagno è stratosferico e la progressione agli utili spettacolare. La corsa al riarmo non rallenta mai, va sempre di fretta con la stessa dinamica, cioè qualcuno si inventa qualcosa di letale e i rivali ci vanno dietro.

È l’unico settore che in pace e in guerra risulta sempre in crescita. I numeri sono da capogiro, ma lo denuncia solo Jorge Mario Bergoglio e quando lo fa tutti zitti, sperando che la prossima volta si dimentichi della classifica della morte. Ma non avviene. Il Papa cocciuto come pochi non molla. E ha ragione. L’ultimo studio dell’Istituto Ricerche Internazionali Archivio Disarmo mette in fila numeri impressionanti e rivela che le multinazionali militari a livello globale negli ultimi dieci anni hanno intascato profitti superiori del 773 per cento rispetto agli anni precedenti. Non si tira mai il fiato, neppure in tempo di pace.

Nel 2020 il valore globale della spesa militare era di 1981 miliardi di dollari americani, più 2,3 rispetto all’anno precedente e più 9,3 rispetto al 2011. Le guerre in Ucraina e nella Striscia di Gaza provocheranno un’ulteriore progressione e soprattutto aumenterà l’influenza della lobby dell’industria militare. Le armi hanno preso il posto del dialogo e l’intimidazione quello della diplomazia.

Qualcuno muore e qualche grande azienda ingrassa il portafoglio. Anche il concetto di riarmo è diventato obsoleto davanti ai numeri. Si tratta di accelerazioni, perché mai la produzione di armamenti si è fermata. Quella italiana per esempio è raddoppiata negli ultimi cinque anni e ancora non si è soddisfatti, poiché il presidente del Consiglio Giorgia Meloni all’ultimo summit della Nato negli Usa ha promesso ulteriori aumenti, confermando che l’unico schema possibile oggi nella testa di chi governa è quello della guerra e non della trattativa.

La promessa degli F16 all’Ucraina non è affatto la soluzione per la vittoria di Kiev. L’F16 è un aereo vecchio, battesimo del fuoco nel 1974, dismesso dall’Italia, per esempio, nel 2012 e sostituito già da due altri tipi di caccia. Forse conterrà l’avanzata russa o forse no. Sicuramente altre migliaia di soldati e civili perderanno la vita. Ma il punto è un altro e conviene a tutti. L’Ucraina sta svuotando i magazzini della Nato e dunque ci sarà posto per nuovi armamenti. Per l’industria una favola, come sempre. La Grande Guerra rivitalizzò l’industria delle armi dopo che Intesa e Alleati spesero circa 200 miliardi di dollari Usa, valore del tempo, nel conflitto che svuotò gli arsenali.

Da allora in poi è sparito anche lo «stop and go» e il profitto degli armamenti si è spalmato sulla pace ottenendo spesso da parte delle opinioni pubbliche un sostegno euforico. In Italia non c’è alcun dibattito, se non in rarissimi circoli e su pochissimi giornali tra cui l’Osservatore Romano, sulle folli spese militari. L’industria va a gonfie vele. Leonardo e le sue straordinarie performance tecnologiche e finanziarie è il nostro fiore all’occhiello e guai a toccarlo. Fa accordi dappertutto per aerei, carri armati, supertecnologie strategiche, corre in Borsa per la gioia dell’azionista che poi è lo Stato cioè noi che però paghiamo la bolletta, venti miliardi solo per i prossimi corazzati da combattimento. Nessuno si domanda a chi conviene, visto che l’industria militare aumenta utili e fatturato, ma diminuisce in modo vertiginoso gli occupati e non stacca alcuna cambiale sul Pil.

Vale lo 0,5 della nostra ricchezza, lo 0,8 per cento degli lavoratori con il 16 per cento in meno negli ultimi dieci anni, nonostante la narrazione maistream di media e politica sul ruolo strategico di questi posti di lavoro, come è accaduto con l’enfasi sull’occupazione legata alla produzione e all’assemblaggio del costosissimo caccia multi-ruolo F35, rivelatasi una vera e propria bufala. Eppure fatturato e utili sono alle stelle, ma nessuno si domanda in che tasche finiscano i i soldi.

Qui possiamo dare solo un suggerimento. Leonardo è controllata dal Ministero della Difesa con il 30 per cento di azioni e con una «golden share», cioè la possibilità di controllo governativo della maggioranza azionaria per via della sua importanza strategica. Ma il gioco è governato dai Fondi istituzionali, che per il 53 per cento sono nordamericani.

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