L'Editoriale / Bergamo Città
Domenica 29 Novembre 2020
L’indulgenza verso il male
dei grandi della storia
Il milione di argentini sfilati a Buenos Aires davanti alla bara di Diego Maradona alla «Casa Rosada» (la sede del governo), il lutto dei napoletani e i riconoscimenti da tutto il mondo, sconfessano l’affermazione per la quale il calcio sarebbe solo uno sport, pronunciata spesso a censura degli insensati scontri tra ultras e degli ingaggi da favola dei giocatori. Il calcio è anche uno sport, il più praticato da tesserati nelle società (1,4 milioni solo in Italia) o da semplici appassionati. Non c’è oratorio che non abbia il suo campetto e rettangoli da gioco si trovano anche nei villaggi più sperduti del Sud del mondo povero, in terra battuta o di sabbia e con le porte di assi di legno.
Il calcio a livelli professionistici è l’epica di massa, la contesa emozionante del pallone scambiato tra uomini dotati di un tocco frutto di anni di lavoro, una disciplina facile (all’apparenza) da comprendere e da praticare, anche nelle sue regole. Dà gioie e dolori, una passione che può diventare «malattia». Ma il calcio è anche un’industria, fra le prime dieci in Italia e produce (nell’era pre Covid) lo 0,19% del Pil. Di Maradona in questi giorni è stato detto tanto: il calciatore più forte del mondo, un talento senza uguali, la palla incollata al piede, la generosità e un’umanità straripante, le origini povere in un «barrio» di Villa Fiorito (Buenos Aires) e la vicinanza al popolo, la denuncia delle ingiustizie sociali e l’amicizia speciale con Fidel Castro. Ma televisioni e giornali hanno solo accennato alle vicende negative del «pibe de oro»: con un pudore imbarazzato si sono fermati sull’orlo delle pagine nere. Un errore, perché la fragilità di Maradona, le sue dipendenze e i suoi cedimenti erano parte della personalità sopra le righe e non sono bastati a impedirgli di assurgere al ruolo di calciatore per eccellenza.
E poi l’indulgenza verso il genio ha censurato l’amicizia negli anni ’80 con i fratelli Giuliano di Forcella, padroni della Napoli criminale, le accuse peraltro infondate di aver evaso al fisco italiano 37 milioni di euro (per molti anni non ha potuto rimettere piede a Napoli; la Cassazione si sarebbe definitivamente espressa nel marzo 2021), il figlio Diego Armando Jr. avuto fuori dal matrimonio (poi rotto), riconosciuto e incontrato quando ormai aveva già 17 anni, l’abuso prolungato di cocaina, e di alcol nella parte finale della vita.
Ma la storia è piena di grandi che hanno commesso reati o cadute finiti nell’oblio perché il loro enorme talento nella biografia eccede sul resto. Pittori, cantanti e musicisti detti appunto «maledetti», rovinati dal vizio e autori di reati, che in alcuni casi hanno perso la vita per overdose o per gli effetti di un uso smodato di alcolici. Anche tra chi ha scritto le vicende delle nazioni ci sono personaggi macchiati: il generale Napoleone Bonaparte, il grande condottiero che conquistò mezza Europa, un genio della strategia militare raccontato nei libri, fu però anche autore di grandi ruberie: ruppe ad esempio i patti sottoscritti con la Repubblica di Genova tenendosi 4 milioni di lire di allora per conservare l’indipendenza della Liguria, mettendo a segno un colossale furto svuotando le casse del Banco di San Giorgio.
È una legge non scritta della vita: il talento immenso è ricordato per l’eredità che ha lasciato al mondo, per quello che ha realizzato, acquisendo notorietà e godendo di un’indulgenza per i vizi e i reati commessi. Sarà una considerazione ingenua, ma quanto valore avrebbe in una società incattivita come quella nella quale viviamo indulgere pure con chi è privo di grandi genialità e va incontro a errori e inciampi, anche verso i poveri cristi, i fragili senza talento espresso, segnati da infanzie violente e anaffettive, nati nei posti sbagliati e diventati i capri espiatori delle nostre paure e insicurezze. Uno sguardo cambiato verso i perdenti che vivono ai margini renderebbe il mondo un luogo più umano.
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