L’indifferenza
che inquina

Noi e loro. Il nostro gruppo e il loro gruppo. I nostri e i loro problemi. Le nostre aspirazioni e le loro aspirazioni. Jorge Mario Bergoglio nell’omelia della Messa per la Giornata del migrante e del rifugiato va al cuore della questione e spiega di quale male stiamo soffrendo, male per il quale dovremmo non far altro che piangere. Il tema scelto per questa Giornata –che molti credono essere stata inventata dal (delirante) buonismo di Papa Francesco e che invece si celebra da 105 anni, quando i migranti eravamo noi – sbaraglia la competizione che fin qui ha portato a vedere in ogni straniero per nazionalità e per religione un ostacolo e perfino un nemico: «Non si tratta solo di migranti». E siccome il Papa sa bene che spesso l’indifferenza e l’esclusione è declinata e giustificata in vari modi nella stessa comunità ecclesiale ieri ha pronunciato parole severe nel mezzo della Messa rivolgendosi proprio ai credenti.

Andrebbero inchiodate sul portone di ogni chiesa: «Come cristiani non possiamo essere indifferenti di fronte al dramma delle vecchie e nuove povertà, delle solitudini più buie, del disprezzo e della discriminazione di chi non appartiene al “nostro” gruppo». Le politiche tossiche nei confronti dei migranti sono il segnale di un degrado più ampio che porta a pensare solo a me stesso, rende insensibile verso qualsiasi richiesta di aiuto, perché ciò che conta è unicamente la propria prosperità.

Da sette anni Francesco lo ripete. Se c’è una cosa che non ha smesso di fare è denunciare quella «globalizzazione dell’indifferenza» che inquina fino all’avvelenamento ogni rapporto personale, sociale e geopolitico, favorisce l’esclusione e di conseguenza il ripiegamento e l’individualismo. In politica si traduce con nazionalismo e sovranismo, tende a cancellare ogni memoria e a riscrivere regole e diritti con la sintassi della paura, in un contrappunto di «noi» e «loro» che porta alla barbarie. In religione si chiama fondamentalismo, cioè identità che escludono. Sul piano personale si accompagna ad una eccitazione per l’«io» opposto ad ogni «tu» e naturalmente a qualsiasi «noi». La furiosa opposizione di una parte consistente dalla società italiana al dibattito sulla cittadinanza, cioè allo «ius soli» o al meno impegnativo «ius culturae» ne è un esempio luminoso e inconfutabile. E se guardiamo a quel 10% di bambini nati in Italia da genitori stranieri, che vanno a scuola con i nostri figli e ci crescono insieme, ma scoprono amaramente di essere nonostante tutto diversi, la situazione dovrebbe essere drammatica per la coscienza di ognuno, credente o non credente. Non è un caso che in questa settimana appena passata il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente dei vescovi italiani, abbia rilanciato la questione dei diritti di cittadinanza, come chiave del ragionamento che superi «noi» e «loro». Invece si continua nell’esercizio dell’esclusione. Gli insulti social, documentati dall’ultimo Rapporto Caritas-Migrantes, colpiscono immigrati, ebrei, musulmani in misura drammatica, perché loro non appartengono al «nostro» presunto gruppo. Dovrebbe essere un trauma per tutti noi e per la nostra stessa democrazia. Dovremmo provare vergogna. Invece lo riteniamo giusto, autorizzato, quasi legale e se qualcuno alza il dito viene sommerso da una dose aumentata di insulti. Godiamo nel considerarci antagonisti e non protagonisti insieme agli altri della scrittura di una storia nuova. Restiamo rocciosamente orgogliosi delle nostre analisi sull’immigrazione quasi sempre sbagliate, costruite sulle bugie dettate dalla paura. Coltiviamo pregiudizi e li trasformiamo in ostilità a volte violenta. Scansiamo responsabilità troppo pesanti da sopportare come quelle che intrecciano il «nostro» benessere, finanza malandrina, produzione e commercio delle armi con aumento di poveri, scarti ad ogni latitudine, guerre, cambiamenti climatici e di conseguenza migrazioni. La parola d’ordine in cima al nostro personale vocabolario è «respingimento» di ogni tribolazione e di ogni domanda. Anche quelle ormai quotidiane di Bergoglio. È meglio per il «nostro gruppo» chiudere occhi e orecchie, non vedere e non sentire. Mica che ci venga da piangere…

© RIPRODUZIONE RISERVATA