L'Editoriale / Bergamo Città
Mercoledì 29 Luglio 2020
L’eutanasia e le sentenze
la politica è assente
È l’ultimo caso e ce ne saranno degli altri. La materia è sensibile e delicata, ma è anche una di quelle sulle quali si crea e si smonta il consenso e soprattutto si incrociano le spade delle battaglie ideologiche. La sentenza che ha mandato assolti Mina Welby e Marco Cappato dall’accusa di aiuto al suicidio rientra in una fattispecie politica più che giuridica. I due avevano accompagnato un signore che si chiamava Davide Trentini, malato di sclerosi multipla, a morire in Svizzera e per lui avevano pagato la parcella della morte alla clinica elvetica.
Poi si erano autodenunciati perché l’aiuto al suicidio in Italia è un reato. Hanno creato il caso per arrivare alla sentenza, sicuri praticamente di raggiungere il risultato. Una vera propria strategia di cui Marco Cappato, leader dell’associazione radicale Luca Coscioni, è maestro. Lo ha fatto un’altra volta con dj Fabo. Il giudice ha deciso che il fatto non sussiste in punta di diritto. Le motivazioni che hanno portato la corte alla sentenza andranno lette. Per ora c’è solo il dispositivo che non ha per nulla accolto la richiesta del pubblico ministro che aveva chiesto il minimo della pena e tutte le attenuanti possibili, perché il gesto era mosso da «nobili intenti».
Naturalmente le sentenze si rispettano, ma si possono discutere. E dunque possiamo dire, come ha fatto ieri padre Bartolomeo Sorge, ex direttore della Civiltà Cattolica e di Aggiornamenti sociali, con un fulminante tweet che l’atto resta e resta la sua «intrinseca immoralità». Sulla moralità dell’atto deve confrontarsi la politica, in modo libero e senza le pressioni di sentenze più o meno creative dei tribunali. Ma è un esercizio assai difficile in Italia, dove tutto è bianco o nero, dove si è guelfi o ghibellini, dove la discussione accademica e dottrinale ha difficoltà a trovare una sintesi in norme necessariamente complesse, ma non per questo impossibili da scrivere. C’è una questione che turba.
È inutile nasconderla e nascondersi. Si tratta dell’eutanasia e dell’aiuto da dare a chi decide consapevolmente di togliersi la vita. Per alcuni è una questione scandalosa, da nemmeno prendere in considerazione. Per altri il turbamento non porta allo scandalo e dunque il problema va posto. Ma il Parlamento, più volte sollecitato, non ha avuto il coraggio politico di affrontare la questione. Si è proceduto per sentenze tra cui una importante del giudice delle leggi, la Corte Costituzionale, dell’anno scorso che aveva stabilito la non punibilità a determinate condizioni per chi aiuta a morire («Agevola l’esecuzione del proposito di suicidio») coloro che ne sono pienamente consapevoli e sono tenuti in vita da «trattamenti di sostegno vitale».
La Consulta l’anno scorso aveva ribadito che una norma tuttavia è «indispensabile». Ma finora il Parlamento non ha fatto nulla. Così si continuano a governare materie delicate per sentenze e per paura politica, con la scusa del turbamento, non si guarda in faccia alla realtà. Ogni volta ci si spinge più in là. La corte che ha assolto Cappato e Mina Welby ha allargato l’interpretazione data dalla Consulta, perché in questo caso non c’erano sostegni vitali, come la ventilazione assistita, a tenere in vita il malato. Il tema è proprio quello dell’eutanasia. Fa tremare i polsi, pone nuovi ed inediti dilemmi, ma va affrontato dal Parlamento di un Paese maturo con una tranquilla e seria discussione. Sostenere la tesi che oggi siamo occupati in diverse più gravi questioni è solo un alibi. La pandemia non deve dettare l’intera agenda alla politica. E quando si aprono nuovi fronti vanno considerati, soprattutto se in gioco ci sono diritti o nuovi presunti diritti delle persone.
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