L’escalation non si ferma ma è il momento di costruire una pace che sia decente

Il G7 a Schloss Elmau in Germania e a ruota il summit Nato a Madrid, Spagna. Anche i tempi e i luoghi rendono evidente la spaccatura tra «noi» e «loro», tra il cosiddetto Occidente (definizione politica, ormai, e non geografica) e il cosiddetto Oriente, Russia e Cina in primo luogo. Perché di questa specie di «scontro delle civiltà» poi si parla, visto tra l’altro che dal summit Nato uscirà la definizione di «nemico» per la Russia e «sfida» per la Cina.

L’invasione russa dell’Ucraina e l’onda di problemi che da essa è derivata, dagli approvvigionamenti energetici per il mondo sviluppato a quelli alimentari per il mondo in via di sviluppo, hanno acceso la scintilla di un confronto che comunque covava sotto la cenere e che non aveva mai trovato una sede adatta per essere previsto, affrontato e risolto con mezzi pacifici. Proprio perché ha portato a una crisi epocale e globale, la guerra in Ucraina è al centro di tutti i discorsi. Il cosiddetto Occidente, a dispetto dell’ottimismo che ostentano i suoi leader, l’ha affrontata in maniera quantitativa: più armi all’Ucraina, più sanzioni contro la Russia, più Paesi nella Nato (Svezia e Finlandia, come previsto la Turchia ha ritirato il veto, anche se resta da capire che cosa Erdogan abbia ottenuto in cambio rispetto al Pkk, il partito dei curdi), più Paesi nell’ambito Ue (l’Ucraina e la Moldavia, appunto), più unanimità nelle decisioni (avere un nemico aiuta sempre) e più quattrini per coprire i costi sociali delle scelte.

Dopo quattro mesi di guerra, però, serpeggia la sensazione che tutto questo potrebbe anche non bastare. Perché il cosiddetto Oriente, pur essendo tutt’altro che entusiasta dell’avventurismo di Vladimir Putin, pensa che un crollo della Russia lascerebbe campo libero agli Usa e ai loro alleati, cosa che a Pechino e in altre capitali piace poco.

Dopo essere passati per «dobbiamo aiutare l’Ucraina a difendersi» e «dobbiamo sconfiggere la Russia», siamo arrivati a «è difficile capire quanto durerà la guerra». In altre parole si comincia a pensare che potrebbe essere arrivato il momento di costruire una pace decente (buona non potrà mai essere, dopo questi orrori). Di questo agli americani importa poco, vale soprattutto per gli europei che, come segnalato da un sondaggio svolto in nove Paesi (Finlandia, Francia, Germania, Italia, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna e Svezia), vorrebbero soprattutto veder finire la guerra. Cosa ormai assai più facile a dirsi che a farsi.

Il presidente Zelensky, a nome dell’Ucraina, rivendica il recupero della totale integrità territoriale. Al Cremlino ridono solo a sentirne parlare. La soluzione di compromesso potrebbe essere di tornare alla situazione del 24 febbraio. Ma qualcuno davvero pensa che la Russia, dopo quello che ha «speso» (in vite umane, in emarginazione politica, in crisi economica) per attaccare l’Ucraina, tornerebbe a quel che aveva già e restituirebbe quel che si è presa nel frattempo?

Intanto, sul terreno, l’artiglieria di Mosca picchia anche più di prima. I missili che hanno colpito il centro commerciale di Kremenchuk, fosse questo chiuso da tempo e vicino a uno stabilimento adibito a produzioni militari oppure no, sono la drammatica dimostrazione (insieme con gli atti di guerriglia partigiana degli ucraini a Kherson) che la guerra è diventata totale e tesa a intimidire il più possibile anche i civili. Un’escalation che di certo è legata alle scadenze di cui dicevamo prima, il G7 e il summit Nato, con la quale la Russia manda un chiaro messaggio: non abbiamo paura di voi. Un vicolo cieco da cui si potrebbe uscire solo al traino della politica, quella vera, quella a cui in questi assurdi mesi di guerra e di proclami tutti, da Mosca a Washington passando per Bruxelles, hanno pensato di poter rinunciare.

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