L’eredità politica e la vittima sacrificale

MONDO. E così il momento è arrivato: Joe Biden, dopo tre anni e mezzo di presidenza e due mesi di accorati inviti dai compagni di partito, abbandona la corsa per la rielezione.

Rivendica i risultati ottenuti ma si ritira, dicendo che avrebbe continuato la campagna ma che, «nel maggior interesse del partito e del Paese», preferisce lasciare e concentrarsi per il tempo rimasto sui suoi doveri presidenziali. Nello stesso tempo, pur nella forma spuria di un tweet su «X», Biden garantisce il suo «pieno appoggio» alla vice Kamala Harris affinché prenda il suo posto nella sfida a Donald Trump. Prima dell’analisi politica, almeno un pensiero va espresso sul destino dell’uomo. In difficoltà da tempo per problemi che sono stati ovviamente ingigantiti dal ruolo e dall’esposizione mediatica, Biden è stato tenuto sulla graticola da un Partito democratico che, a quanto pare, si è fatto cogliere di sorpresa da un fattore ineluttabile come il passare del tempo e la fatica fisica. Lo spettacolo a cui abbiamo assistito dopo il disastroso dibattito con Trump è stato francamente crudele, con la base dei democratici che pian piano abbandonava Biden e i maggiorenti del partito, dalla Pelosi a Obama, che fingevano discrezione, lasciando poi trapelare tutto il loro pessimismo attraverso i giornalisti amici.

Al di là di questo, la crisi legata alla persona di Biden rischia di oscurare un evidente problema politico. Gli Stati Uniti degli ultimi tempi, al di là dello sfoggio di potenza militare, sono sembrati una corazzata con un pilota incerto. In Medio Oriente hanno fatto finta di frenare Israele continuando ad armarlo, in Ucraina sostengono la resistenza di Zelensky senza offrire un’ipotesi di vera soluzione. All’interno Biden ha fatto cose buone (ambiente, disoccupazione, università…) ma per categorie di persone che già l’avevano votato quattro anni fa. Lo amano le metropoli cosmopolite, assai meno l’America profonda. Non a caso nei cinque «swing States» ritenuti decisivi (Wisconsin, Pennsylvania, Arizona, Michigan, Georgia e Nevada) è ora in svantaggio rispetto a Trump, nonostante che la sua campagna, a poco più di 100 giorni dal voto, abbia speso sei volte più di quella dell’avversario.

È stato facile per i democratici, finora, scaricare le responsabilità su Biden e sul suo stato di salute. Ma non è certo colpa sua se l’eredità politica di questa presidenza democratica non riesce a «mordere» su una parte importante dell’elettorato. E se si è aspettato fino a questo punto per prendere provvedimenti, affidando per intero a lui l’onere di lasciare la competizione elettorale da gran signore.

Rinunciando a correre, Biden ha espresso apprezzamento per Kamala Harris, la sua vice, e l’intenzione di sostenere la sua candidatura alla nomination democratica. E qui si pone un altro problema. In questi anni la Harris, che pure vantava un curriculum personale e professionale impeccabile, è stata lasciata nel sottoscala della politica (Biden, con Obama, faceva l’inviato speciale degli Usa per la crisi ucraina, per dire) e spesso addirittura derisa. Può davvero essere lei l’arma anti-Trump? Difficile crederlo. Più facile pensare, semmai, che la Harris possa essere la vittima sacrificale di una campagna che si ritiene ormai compromessa, per non bruciare personaggi emergenti che potrebbero essere decisivi quando anche Trump, dovesse tornare alla Casa Bianca, avrà un’età assai rispettabile. E poi ci sono le voci. La Harris con Michelle Obama come consigliera. La stessa Michelle. O addirittura Hillary Clinton, a confermare quanto il Partito democratico sia controllato dai clan.

Oppure, come propongono certi deputati, si scelga il nuovo candidato con un voto a scrutinio segreto tra i parlamentari democratici. Sarebbe il primo caso di nomination per referendum, dopo aver assistito al caso di un presidente eletto dagli americani e cacciato dai compagni di partito. Washington, abbiamo un problema.

© RIPRODUZIONE RISERVATA