L’equilibrio dei poteri e il rischio «democratura»

ITALIA. Le democrazie contemporanee sono basate su tre pilastri: il potere legislativo, quello esecutivo, quello giudiziario.

Il primo è espressione della volontà popolare, al secondo spetta di rendere concrete le scelte dei cittadini, il terzo garantisce la legalità dell’esercizio del potere politico (tanto quello legislativo, quanto sull’operato dei governi). Il raccordo e l’equilibrio dei poteri costituzionali sono assegnati, nel nostro ordinamento, al Presidente della Repubblica. Le società non sono immobili, di conseguenza – anche in presenza di un tessuto costituzionale dato – possono verificarsi sbilanciamenti o distorsioni.

È quello che sembra stia accadendo nel nostro Paese. A darne contezza è illuminante è un episodio a prima vista marginale, ma estremamente preoccupante nella sostanza e nella forma. Dopo la decisione della Procura di Genova di imporre gli arresti domiciliari al presidente della Regione Liguria, il ministro della Giustizia è intervenuto, criticando – in un’intervista televisiva – l’operato dei pubblici ministeri. Una mossa che non ha precedenti nella storia repubblicana. L’operato del ministro Nordio, oltre ad essere irrituale sul piano della forma e inammissibile nella sostanza, è la spia di un preoccupante indirizzo dell’attuale governo. Gli interventi di esponenti (di spicco o di seconda linea) dell’esecutivo sono sovente tesi a comprimere qualunque dissenso e tenere in non cale il limite del potere esecutivo.

L’insieme delle scelte del governo sono orientate a raggiungere tre obiettivi: il rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio dei ministri, la riforma della magistratura, lo snaturamento del rapporto tra Stato e Regioni. Non a caso ciascuna di esse rappresenta il cavallo di battaglia dei tre partiti di governo: accentramento dei poteri nelle mani del presidente del Consiglio (Fratelli d’Italia); divisione delle carriere nella magistratura (Forza Italia); spaccatura del Paese sul piano delle risorse dei servizi da erogare ai cittadini (Lega).

Su questi fronti il governo sembra disposto ad andare avanti ad ogni costo. Come si sa, tanto l’elezione diretta del presidente del Consiglio, quanto la riforma della magistratura, implicando modifiche della Costituzione, sono soggette ad un procedimento «rafforzato». Poiché è impossibile (con i «numeri» presenti in Parlamento), che la maggioranza arrivi ai due terzi dei componenti di ciascuna Camera, si andrà incontro ai referendum popolari.

Tutto ciò rappresenta un azzardo sul piano politico e una evidente forzatura sul piano del «costume» istituzionale.

Le Costituzioni, nelle democrazie, rappresentano il fondamento del patto civile e delle regole di base. Procedere a riformarle, in tutto o in parte, è assolutamente legittimo, ma dovrebbe essere prodotto di accordo anche con le minoranze presenti in Parlamento. Altrimenti si alimenta il criterio che coloro che vincono una elezione possono cambiare tutto ciò che ad essi è sgradito. Valga per tutte la proposta di «premierato».

Così come congegnata, essa finisce per esautorare totalmente il ruolo del Presidente della Repubblica. In merito non basta dire che il Capo dello Stato – a norma dell’articolo 92 della Costituzione – nomina il presidente del Consiglio e, su sua indicazione, i ministri. Non bisogna essere dei raffinati giuristi per capire che – per quanto attiene al Presidente della Repubblica – la riforma proposta lo confina a semplice esecutore.

L’impressione complessiva che si percepisce dalle quotidiane affermazioni del premier e dei suoi alleati è quella di una mirata e ben congegnata operazione di concentrazione delle scelte nelle mani di una maggioranza «pigliatutto». Di questo passo si rischia di arrivare ad una «democratura».

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