L’elezione del Premier semina già discordia

ITALIA. La madre di tutte le riforme, come l’ha battezzata Giorgia Meloni, ha dunque fatto il suo improvviso esordio sulla scena politica italiana.

Forse l’accelerazione è dovuta ad una questione di comunicazione: bisognava cancellare dai media l’imbarazzante figura fatta fare alla presidente del Consiglio con i due comici-spie di Mosca scambiati per un leader africano. Rotolata la testa del consigliere diplomatico, si è subito cambiato discorso, ed ecco apparsa la riforma. Che ci sia stata accelerazione lo dicono molti particolari tuttora mancanti nel testo e subito pescati dagli oppositori dichiaratamente ipercritici nei confronti del testo tanto da adombrare - qui si è distinta la Cgil - tentazioni «orbaniane», cioè da democrazia autoritaria, nelle intenzioni della destra. Naturalmente l’interessata e i suoi consiglieri smentiscono, sdegnati e spazientiti (la bozza si deve al giurista Francesco Saverio Marini, figlio di un ex presidente della Corte Costituzionale, di ascendenze non missine ma democristiane). Quanto alla domanda che condannò Matteo Renzi («Ma se non passa la riforma, lei Meloni si dimette o no?») ovviamente la premier si è subito sfilata da qualunque rischio: «Io offro un contributo al Parlamento, poi saranno i deputati e i senatori a decidere, e se non si arriverà alla maggioranza necessaria, si andrà a referendum e l’ultima parola la diranno gli italiani»).

Quindi il governo con la riforma non c’entra niente: andrà avanti qualunque sia l’esito del tentativo di ammodernare le nostre istituzioni (l’ennesimo tentativo in verità, tutti finiti male, di riforme affondate o in Parlamento o nelle urne: con una unica eccezione, la sciagurata riforma del Titolo V che invece, per uno sberleffo del destino, ha visto la luce e produce danni sin dai tempi del governo Amato che la fece approvare).

Una volta stabilito che conseguenze politiche non ce ne saranno, qual è la novità di questa riforma di soli cinque articoli costituzionali? È che prevede di eleggere direttamente il capo del governo (e non più il capo dello Stato come la destra ha sempre proposto). Un premier scelto dal popolo che dovrà confrontarsi con un Parlamento che comunque deve votare la fiducia al suo governo, e con un presidente della Repubblica che mantiene i suoi poteri (per esempio sciogliere le Camere e nominare i ministri) ma ha una «legittimazione» istituzionale meno marcata del premier: lui infatti resta eletto dal Parlamento mentre il capo del Governo riceve il consenso direttamente dai cittadini. Già, ma per eleggerlo, quanti turni elettorali sono necessari ? Uno o due? Ecco un particolare determinante lasciato per il momento in bianco. Si sa intanto che se un premier eletto dal popolo dovesse cadere, non necessariamente provocherebbe lo scioglimento di Camera e Senato perché è previsto che ci sia un successore purché sia un parlamentare e provenga dalla stessa maggioranza. Questo nelle intenzioni eliminerebbe sia i governi tecnici (tipo Ciampi, Dini, Monti e Draghi) che i ribaltoni di maggioranza. Anche la legge elettorale è rinviata ad un passaggio successivo in Parlamento ma si sa che dovrebbe contenere il premio di maggioranza perché la maggioranza e il suo leader abbiano almeno il 55% dei seggi parlamentari.

Secondo i critici questa riforma metterebbe insieme tutti i peggiori difetti dei tentativi precedenti: elegge un premier ma non gli dà i poteri necessari, indebolisce il Capo dello Stato, imbriglia il Parlamento. Insomma, un pasticcio. Viceversa gli autori della riforma ne difendono l’organicità e soprattutto la sua capacità di dare una prospettiva di legislatura ad un Paese che in 75 anni repubblicani ha avuto ben 68 governo, uno ogni anno e mezzo.

Se mai queste buone intenzioni vedranno la luce - ormai di tentativi abortiti ne abbiamo visti fin troppi - ce lo dirà il prossimo futuro.

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